Zoom ABECEDARIO FOTOGRAFICO di Ferdinando Scianna

Pubblicato il : 18/02/2025 11:05:49

Un personalissimo abecedario dedicato alla fotografia in cui Ferdinando Scianna analizza, parola per parola, tema dopo tema, le tradizioni, le novità e le particolarità del linguaggio visivo che più di tutti, nell’arco della sua vita, ha adoperato e analizzato.

un racconto tanto pittoresco quanto familiare, dove il mondo - come riporta l’autore - scrive sé stesso con penna di luce e in cui il fotografo ne è il lettore, che si muove in questo caso tra le ombre, gli spiragli luminosi e il sole assordante delle sue origini siciliane.

Si comincia con la A di Ambiguità, emblematica apertura per descrivere quanto la fotografia possa essere ambivalente e scivolosa, in continua oscillazione tra la grande esigenza di verifica della realtà e la grande domanda di evasione, di sogno. Passando poi per Amori, Cinema, Dubbi, Emozioni, Fortuna, Identità, Miracoli, Ossessione, Piacere, Scelte, attraversando l’intero l’alfabeto si arriva alla Z di Zeusi, il “protopittore”, come lo definisce Scianna, in grado di dipingere, raccontano, un grappolo d’uva tanto realistico da ingannare persino i passerotti che volevano beccare quegli acini dipinti. 

Tutta la fotografia racchiusa in un alfabeto, tutta la fotografia raccolta in un abecedario straordinariamente redatto attraverso la scrittura ironica, profonda e allo stesso tempo lieve di Ferdinando Scianna. 

     

In questo numero di Tank, alcuni estratti: Analogico, digitale, Cinque libri, Dialogo sul realismo, Emozioni.


Analogico, digitale
Faccio fotografie da 63 anni e per me gli acidi, i rullini, le manie sui modi di esporli e svilupparli, la magia della camera oscura, con quella luce rossa da bordello, come l’ha definita qualcuno, fanno parte della mia pratica artigiana e dell’alchemico erotismo, propriamente, dell’immaginario di questo la-voro.
Non è facile né piacevole veder scomparire una tecnica che hai cercato di padroneggiare sperando di farla diventare linguaggio. E però, era chiaro da un pezzo che i vertiginosi salti tecnologici cui assistiamo nei più svariati campi della nostra relazione col mondo non avrebbero risparmiato la fotografia. Ed ecco che sono arrivati, ineluttabili, irreversibili.
Sono già passati anni da quando la Kodak ha annunciato dall’oggi al domani che non avrebbe più fabbricato pellicole in bianco e nero. Ha poi traballato la Ilford, e così via. Poi è stata la volta della Nikon di dire basta alla fabbricazione di macchine fotografiche analogiche. Il direttore commerciale disse di dubitare che nel 2008 ci sarebbe stata ancora richiesta di macchine a pellicola.
Nelle tecnologie di stampa la faccenda si muove con la stessa geometrica progressione. I grandi laboratori svendono i tradizionali ingranditori e li sostituiscono con le nuove stampanti a laser o a getto di inchiostro. Trovare la carta per la buona stampa diretta in bianco e nero da pellicola sta già di-ventando un problema. Gli stampatori di camera oscura sono diventati rari e carissimi.
Tutto questo può lasciare sgomenti. In realtà, il cambiamento ci aveva già investito massicciamente. Da molti anni, in definitiva, tutti i grandi distributori di fotografie trasformano negativi e diapositive analogici in immagini digitali da mettere a disposizione dei potenziali clienti attraverso internet. Ai clienti non si mandano più stampe o riproduzioni di diapositive ma file scansiti alla risoluzione utile per le varie esigenze.
Scomparirà del tutto la fotografia analogica? Non credo. Per un tempo ancora, ma non azzardo profezie su quanto lungo, continueremo ad avere a che fare con pellicole, sviluppi, carte, eccetera.
Già si percepiscono ritorni, che forse non sono solo una moda.
Ma credo che questa diventerà sempre più una pratica di nicchia, specificamente destinata a certi usi di comunicazione e di mercato a forte valore aggiunto, come il mercato dell’arte, per esempio. Forse. Anche in quel mercato, infatti, le nuove tecnologie si stanno rivelando altamente affidabili e competitive per durata e qualità e sono ricevute con sempre maggiore favore.
Bene: i pixel stanno sostituendo la grana delle pellicole, che vengono soppiantate a loro volta da schede di memoria sempre più capienti e veloci per macchine che arrivano già a produrre file di oltre 20 milioni di pixel e di altissima risoluzione.
Che cosa significa tutto questo per la fotografia e soprattutto per un certo tipo di relazione con il mondo e con la memoria che la fotografia ha marcato per poco meno di due secoli come linguaggio principe della modernità?
Qualcuno dice che non cambia nulla e che il digitale è sol-tanto un’evoluzione interna alla fotografia stessa. Ma, a parte la sostanziale differenza tecnica e forse ontologica tra l’immagine analogica e quella digitale, di cui si potrebbe discutere a lungo, a me pare che il cambiamento radicale, forse rivoluzionario, risieda soprattutto nella diversissima pratica di massa della fotografia che le nuove tecnologie hanno già innescato.
Adesso fare fotografie è diventato un gesto sempre più semplice, quasi irriflesso, compulsivo. Non è un caso che oggi si fotografi moltissimo con il telefonino. Fotografare non è più un atto di consapevole scelta, tra i fatti e i momenti della vita, di quelli che vogliamo consegnare al ricordo, alla memoria, al senso. Si fotografa per mostrare in “tempo reale” al fidanzato a Milano com’è la stanza dell’albergo di Barcellona dove si è appena entrati; per esibire in un autoritratto come si è vestiti o svestiti. Si inviano foto magari da una stanza all’altra, senza altra necessità che recitare il film della vita mentre lo si vive,o invece di viverlo. Fotografare si sta trasformando, come la musica degli iPod, in ogni spazio, bar o supermercato, in una sorta di “colonna visiva” della nostra esistenza. Diventa una pratica del presente senza passato, senza memoria. Un doppio del vissuto presente, senza filtri che lo elaborino. Probabilmente le innovazioni tecnologiche sanciscono, più che provocare, le trasformazioni culturali.
È un bene? È un male? Chi lo sa? Difficile andare dietro a decifrare cambiamenti tanto repentini e successivi.
 
 
Mostrare le fotografie
Il gesto di un fotografo che si ostina nella pratica, forse in-sensata, di cercare, trovare in presa diretta sulla realtà momenti significativi ed espressivi non si conclude con il momento dello scatto. Troppi sono gli elementi aleatori nello spettacolo del mondo che ti fanno credere, come diceva Robert Frank, che Dio faccia capolino da dietro l’angolo. La maggior parte delle fotografie istantanee sono inevitabilmente sbagliate. Sei arrivato troppo presto, o troppo tardi, e l’istante magico è sparito.
Altrettanto importante è il momento della scelta dentro questo mare di fallimenti. Quella fotografia e nessun’altra.
Poi, quelle poche immagini salvate devono essere comunicate. Non si fanno fotografie, né alcuna altra cosa, solo per sé stessi. Tutti vogliamo condividere quello che abbiamo fatto, e il modo in cui lo facciamo è variegato e complesso.
Si può mostrare una stampa a un amico, una alla volta, per esempio. Oppure dentro un gruppo, sparse su un tavolo. Ed è già l’inizio di una storia.
Oppure le si scelgono per un libro. E qui la faccenda si fa più complicata: le immagini diventano come le parole, le frasi. Non ci possono essere ridondanze, o stridori, se non voluti. Quelle immagini vengono poi impaginate, dallo stesso foto-grafo o da un grafico più o meno bravo, messe in relazione tra loro nelle pagine, una più piccola, una più grande, molte insieme, una doppia pagina, una pagina isolata, o due fotografie che si fronteggiano. Diverso è impaginare un album, come repertorio delle migliori immagini di un autore, sulla sua traiettoria, o magari su una storia coerente, il racconto di un luogo, di una situazione.
Di solito l’impaginazione si fa mettendo insieme fotografie fatte in tempi magari molto lontani tra loro. Conosco un solo libro, New York di William Klein, che è stato composto di fatto contemporaneamente al tempo dello scatto.
Alla fine, è determinante anche la qualità della stampa ti-pografica delle immagini. Immagini mal stampate sono come cattive traduzioni da una lingua straniera, come un testo pie-no di refusi.
Cosa completamente diversa è impaginare una mostra. Oltre alla scelta delle immagini, per una mostra è fondamentale la loro relazione architettonica con lo spazio. Tutte dello stesso formato, per esempio, o alcune più grandi, altre più piccole, raggruppate o distanziate. E anche nelle mostre ci sono quelle che celebrano il fotografo e quelle che ambiscono a produrre un racconto. Molto più difficili.
Ci sono anche i calendari. Ne ho fatti molti. Quelli classici, magari, quando li ricevi o li compri guardi tutte le immagini, poi lo attacchi al muro e le foto le vedi una alla volta per un mese intero. Fino a non vederle più.
Di recente ne ho fatti due che possono anche essere ap-poggiati su un tavolo, magari nella stanza da bagno. A forza di guardarla per un mese intero una singola foto può diventare insopportabile, o suscitare una fascinazione che ti ci fa entrare dentro più che in una mostra.
Altro strumento di comunicazione, oggi molto usato, è la proiezione, diretta o elettronica. Qui è fondamentale il tempo di permanenza delle fotografie sullo schermo. E diversissimo è l’effetto che si ottiene se le immagini sono commentate di-rettamente dal fotografo o mostrate solo su un fondo musica-le. Un linguaggio teatrale. Altro modo è quello del documentario cinematografico o        televisivo. In questa modalità il tempo di fruizione dello spettatore è determinato dal regista e dalla più o meno riuscita collaborazione col fotografo. Tanto migliore il risultato quanto più bravo è il regista. Ci sono i documentari in cui le fotografie raccontano un tema, altri in cui lo scopo è quello di illustrare il lavoro di un fotografo.
Di solito non amo i documentari su un fotografo che “cinematografizzano” le fotografie. Troppi registi entrano dentro le immagini costruendo sequenze filmiche che di fatto contraddicono, mi sembra, la natura stessa della fotografia, che è propriamente quella di produrre immagini fisse.
Forse, almeno tra quelli che conosco, il più bello e pertinente di questi film è quello che Wim Wenders ha fatto sul lavoro di Sebastião Salgado.

È cinema, ma è anche una specie di proiezione emoziona-le nella quale la voce e le parole di Salgado raccontano, non spiegano, le sue immagini. Il ruolo determinante del regista è stato quello di comporre le sequenze e dare un tempo preciso alla permanenza sullo schermo delle fotografie. A volte più lungo, a volte più breve, sempre in perfetta coerenza con l’intersecarsi autonomo dei tre linguaggi: le fotografie, le parole, la regia.

Cinque libri
Cinque libri non vogliono dire nulla per uno che per tante ragioni ha scoperto tardi che leggere è uno dei più grandi piaceri della vita.
Allora tanto vale uno. Quale? Oblomov? Il primo libro che ragazzo, ma poi non tanto, mi ha dato la rivelazione di che cos’è la letteratura? O L’uomo senza qualità, dentro il quale ho vissuto quasi un anno e mai più ho ripreso e mi ha lasciato il sentimento di un universo che probabilmente contiene tutto?
E quanti altri, gli stessi di tutti, immagino, quelli che certo ti hanno cambiato la vita, anche se è difficile dire come e perché.
Continuo a leggere seguendo i sentieri del caso, come si accendono fiammiferi per rischiarare almeno un poco la notte della mia ignoranza. Ma è difficile, alla mia età, incontrare ancora un libro che ti cambi la vita quando la vita comincia, e non da oggi, a diventare un disvivere.
Libri che hanno a che fare con il mio mestiere di fotografo? Tanti, letti e guardati, forse troppi, soprattutto quelli con fotografie. Ma per me letteratura e fotografia non sono mai andati disgiunti. La fotografia, vissuta e praticata per oltre mezzo secolo, la lettura l’ha nutrita.
La scrittura come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. Libri che ti accompagnano, allora, continuamente riguardati e riletti. E se cinque devono essere, cominciamo da un libro di fotografie.
Henri Cartier-Bresson, Images à la sauvette
Per me non solo un libro di fotografie, ma quasi un sino-nimo di quello che per me è stato e continua a essere la fo-tografia. La fotografia come folgorazione, sintesi di pensiero, forma ed emozione. Semplicità perfetta, perfezione semplice. Ma Images à la sauvette non è per me soltanto le immagini. È propriamente il libro. Attraverso il genio di Tériade un og-getto in cui tutto – la sequenza, l’impaginato, la copertina di Matisse, il formato, la carta, persino il peso – tutto concorre a esprimere attraverso la forma libro una visione del mondo. E il testo, che Tériade impose a Cartier-Bresson di scrivere per accompagnare le fotografie e le cui idee, folgoranti come le sue fotografie, raddoppiano e rivelano il senso delle immagini e per me dello stesso fare fotografie.
La prima volta che l’ho visto, a casa di Leonardo Sciascia, avevo vent’anni e l’ho rifotografato pagina per pagina. Come se avessi tentato di mangiarlo per farlo diventare parte di me.
Ogni volta che lo riapro è con la stessa trepidazione, lo stesso stupore della scoperta.
 
Montaigne, Saggi
 
Il primo incontro è stato nell’antologia di Gide. Ne ho poi comprate diverse edizioni complete. Non so se l’ho mai letto per intero. O forse sì. Ma da quella prima volta, molti anni fa, è rimasto sempre a portata di mano. Lo apro a caso, in un punto qualsiasi, e immediatamente, qualunque sia il tema che tratta, ritrovo il tono inconfondibile della conversazione con un vero amico. L’amicizia, di cui Montaigne ha così meravigliosamente scritto – e la sua prosa è un parlar pensando, lucido e affettuoso – instaura quello specialissimo scambio per cui l’amico, raccontando di sé stesso, dei propri pensieri, propriamente rivela a te i tuoi, ti regala la sua intelligenza della vita, della storia, la sua scienza del cuore umano. Uomo libero, cervello libero, il più perfettamente laico della cultura occidentale. Non ci si capacita che quest’uomo indenne da ogni fanatismo abbia vissuto, pensato e scritto in tempi di massacri ed, eretici bruciati che per secoli sarebbero stati, e ancora sono, offesi, torturati, uccisi.
 
Leonardo Sciascia, Nero su nero
 
E non che non siano da rileggere tutti i suoi romanzi, soprattutto quelle cronachette, sottili e taglienti come rasoi, at-traverso le quali ha raccontato, ma da narratore vero, come pochissimi nella letteratura italiana, i perché della storia che hanno fatto dell’Italia e degli italiani quello che sono diventati e sono. Sino al malinteso di parlare ancora di Sciascia come di un polemista politico e non di uno scrittore che va riportato all’intensità poetica della sua parola. Nero su nero era il titolo di una sua rubrica sul giornale L’Ora di Palermo, dove scriveva brevissimi corsivi acuminati che leggevo ancor prima di in-contrarlo. Un incontro che ha cambiato la mia vita.
Ma in Nero su nero, Cruciverba, La corda pazza, Occhio di capra e altre raccolte di sua prosa saggistico-letteraria, una miniera inesauribile, ritrovo la sua voce lucida e appassionata, dentro la quale potevano convivere Montaigne, appunto, Voltaire e Borges, Stendhal, Pirandello e un’erudizione che declinava in mille registri, dall’ironia fino alla pietà.
 
Philip Roth, Everyman
Succede spesso che qualcuno ti chieda: hai letto l’ultimo Philip Roth? Dio mio, terribile! Terribile? Triste. Non triste, straziante. Ma esaltante anche. Giubilatorio. Giubilatorio in senso propriamente letterario. Ma quando mai la letteratura per renderti felice deve essere consolatoria, peggio ancora, evasiva? La felicità che mi fa leggere Roth, e specialmente quello degli ultimi romanzi, nasce proprio dalla sua capacità di metterti di fronte alla verità della vita, dei sentimenti umani, con una tale perfetta trasparenza tra la rivelazione e la verità, appunto, senza nemmeno un grammo di mistificazione ipocrita, da farti dimenticare che questa formidabile presa diretta è frutto di un’altrettanto formidabile sapienza letteraria. Sembrano diari, resoconti e sono invece calcolati miracoli della struttura stilistica e narrativa. Nessun resoconto, nessuna testimonianza può andare così a fondo come solo può farlo un grande scrittore che usa al massimo della sua maturità, come Roth, tutti i suoi mezzi raffinatissimi di scrittore. Chi fugge dalla letteratura che ti mette di fronte alla verità non merita né la verità né la letteratura.
 

Rudyard Kipling, Kim
Forse il solo libro di cui avevo un vago, ma felice ricordo di una lettura adolescenziale che ho riletto e poi riletto ancora alla soglia della vecchiaia. Con lo stupore di scoprire che quel “libro per ragazzi” era invece un formidabile libro di meditazione umana e filosofica sulla vita, un’iniziazione, sul diventare uomini, sull’amicizia, sul bisogno di maestri, per me così fondamentale, sulla ricerca, attraverso l’esperienza del mondo e la morte, del senso stesso della vita. Un libro che parlava all’adolescente che ero alla prima lettura con la stessa necessità con cui parla oggi all’uomo più che maturo. Ma libro felice rimane. Uno, anzi, dei rarissimi libri felici tra quanti se ne possano leggere. Come L’isola del tesoro, per dire. E come quello, grande libro d’avventure e d’avventura, esistenziale e letteraria. Ecco, i libri di Roth non sono libri felici, anche se danno felicità estetica, letteraria, di pensiero. Kim dà felicità, ma è anche un libro felice. L’unica malinconia la procura quando se ne conclude la lettura. Come faremo a vivere senza? Ma per fortuna, dopo poco tempo si può rileggere, e sarà sempre diverso e sempre felice.
P.s.: E Borges allora? E Diderot, e Leopardi, e Manzoni, e Gadda, e De Roberto, e Brancati, e Thomas Bernhard, e Alejo Carpentier, e Stanisław Jerzy Lec, e…, e…, e…
 
Dialogo sul realismo
Quando torno in Sicilia, con sempre maggiore difficoltà dopo molti decenni da quando sono andato via, e non per colpa della Sicilia, ma perché sono diventati impossibili i ritorni, vado sempre con il mio amico Michele a fare una passeggiata lungo la litoranea di Capo Zafferano. Passeggiata che ci con-ferma l’impossibilità, appunto, di ritrovare, noi tanto cambia-ti, quello che non c’è più da un pezzo.
“E allora”, mi chiede Michele, “che ti passa per la testa?”. “Pensa tu, Michele, mi chiedono di scrivere sul realismo tra le avanguardie dell’arte del Novecento”.
“Certo che con te”, commenta il mio amico, “il tempo pare non passi proprio. Non la menavi con questo discorso già quarant’anni fa?”.
“Normale, no? Faccio il fotografo e per un fotografo il realismo dovrebbe essere pane e companatico. Inoltre, la fotografia ha completamente scompaginato le nostre idee sul realismo e non solo nell’arte”.
“Ma davvero?”, chiede sarcastico Michele. “Ma se il nostro conterraneo Capuana, che addirittura si definiva verista, fotografava persino i fantasmi”.
“Forse”, obietto, “perché credeva tanto al realismo della fotografia da pretendere di fotografare anche i fantasmi. Si era persino fatto un impossibile autoritratto da morto!”.
“Ma è poi realista la fotografia? Sono realiste le fotografie che hai fatto da ragazzo di questa litoranea, prima che la di-vorassero? Ce lo possiamo fare il bagno in quelle fotografie?
Non più di quanto possiamo fumare con la famosa pipa di Magritte”.
 “Infatti, dopo la fotografia la faccenda è cambiata. Di-cono che Picasso abbia fatto dei ‘ritorni’ al realismo. Io non credo se ne sia mai allontanato. Ma sapeva, lo disse in una conversazione col fotografo Brassaï, che non aveva più senso dipingere come prima della fotografia. Il ruolo ‘documentario’ non competeva più al pittore. A chi gli contestava che il suo ritratto di Gertrude Stein non fosse somigliante lui rispose lucido e sprezzante: gli assomiglierà. Lei al ritratto, non il ritratto a lei”.
 “Ma non c’era stato uno che aveva sostenuto che dopo la fotografia la pittura era morta?”.
“Un imbecille, e pessimo pittore, naturalmente. La pittura, l’arte, hanno preso invece altre strade. Alcune si rivelarono vi-coli ciechi, altre portarono a nuove avventure. Certo la faccenda è stata complicata. Non so se tra arte e fotografia c’è stato il ‘combattimento per un’immagine’ ipotizzato nella celebre mostra torinese di Luigi Carluccio, ma certo equivoci e via vai ce ne sono stati tanti. Artisti spaventati dalla fotografia, complessi infiniti, mai risolti, dei fotografi nei confronti dell’arte”.
“E come si sono manifestati questi malintesi?”.
“Hanno cominciato i fotografi pittorialisti, i Demachy, i Puyo e gli altri, che curiosamente, all’inizio, piacevano tanto a Stieglitz, che pure fu quello che importò l’arte d’avanguardia europea a New York nella sua Galleria 291, ma poi diede il via al movimento del grande realismo fotografico, che doveva tanto influenzare la nuova arte americana. Il pittorialismo, ha scritto Roland Barthes, è l’esagerazione di quello che la fotografia pensa di sé stessa. Insomma, stringi stringi, il discorso di quei fotografi frustrati era quello banale, piccolo borghese: che bella foto, sembra un quadro!”.
“E dalla parte dei pittori?”.
“Be’, dopo tante invettive baudelairiane, rotture, morti dell’arte e altrettante resurrezioni e confusioni, certi risultati della pittura iperrealista sono stati una specie di ritorno cir-colare a quell’insensatezza: che bel quadro, dicevano ora certi pittori, sembra una fotografia! A Reggio Emilia, a Palazzo Magnani, ho visto una retrospettiva di Richard Estes, famoso pittore iperrealista. Estes diceva di essersi messo a dipingere quando si era reso conto che con la pittura andava più lon-tano di quanto potesse andare la fotografia. Ma guardando le opere, che tra l’altro si confrontavano con le fotografie di Werner Bischof in altre sale del palazzo, era evidente che quei quadri iperrealisti andavano molto meno lontano delle foto di Bischof. Del resto, vediamo in giro montagne di immagini di fotografi che pensano di uscire dalla loro impotenza espressiva con opere che volontariamente, in nome della creatività artistica, rinunciano alla fotografia. Si può essere neopittorialisti pestando, stancamente, con la fotografia, la stessa acqua nei mortai concettuali di certa arte contemporanea. Insomma, prima la fotografia era cacciata dal santuario dell’arte, poi sembrò che tutta l’arte fosse fotografia. Altro che combatti-mento: suicidio speculare mediante abbandono del proprio linguaggio”.
“Che cosa vuoi sostenere”, ribatte Michele, “che i grandi artisti contemporanei che hanno continuato a esplorare territori figurativi sono personaggi patetici, attardati su ricerche che avrebbero dovuto essere lasciate alla fotografia?”.
 “Ma quando mai, Michele! Il Picasso più ‘figurativo’, Fran-cis Bacon, un certo De Chirico, un certo Sironi, Schad e mol-ti della nuova oggettività tedesca, Mušič, il grande Hopper, Balthus, Lucian Freud e altri, tanti, che certi critici, nella loro ansia di mettere etichette, non sanno nemmeno dove colloca-re, non sono stati e sono parte viva, vivissima dell’esperienza artistica contemporanea?”.
 
“Ma alcuni di questi, non hanno usato la fotografia?”.
“Certamente. E come avrebbero potuto ignorarla? Il cine-ma e la fotografia sono stati i linguaggi chiave della moderni-tà, come Eric Hobsbawm, da storico, ha constatato. Ma questi artisti si sono serviti della fotografia come punto di partenza per esperienze linguistiche altre, nuove, tutt’altro che impa-stoiate in esigenze imitative o documentarie.
Milan Kundera si stupisce di quanto, malgrado le ‘distorsioni’, i ritratti di Bacon siano vicini ai loro soggetti e alle fotografie, propriamente, dalle quali Bacon spesso partiva. Paradossalmente somiglianti, certo, non naturalistici. Bacon, del resto, era interessato anche alle immagini a raggi X e i suoi ritratti sono spesso terribili, penetrantissime radiografie dei suoi soggetti. Hopper, così apparentemente ‘fotografico’, è forse un pittore realista nel senso che alla parola si dava nell’Ottocento? Certamente è stato influenzato dalla fotografia e dio sa quanto abbia influenzato certa fotografia moderna, ma il suo realismo, perfettamente contemporaneo, è tanto più visionario quanto più è vicino al dato della realtà, fino all’allucinazione”.
“E i fotografi?”.
“Discorso molto appassionante, specialmente per me, come puoi immaginare. Cartier-Bresson, personaggio chiave della cultura figurativa moderna, è considerato come il più conseguente nel praticare quell’azzardo obiettivo che fu alla base del Surrealismo. Ma lo è stato da rigorosissimo fotogra-fo, cioè con la scrupolosa attenzione al reale senza la quale non c’è fotografia.
Ma senti una cosa, Michele, hai visto che giornata? E se ci facessimo un bel bagno?”.
“Finalmente! Questa sì che mi sembra una proposta di sano realismo”.
“Ma che ore sono?”.
“E che ne so, ho lasciato l’orologio al sole. A quest’ora si dev’essere liquefatto come una frittella di Dalí”.

“Lasciamo perdere, Michele, il dialogo sul Surrealismo lo faremo un’altra volta”.

 


Emozioni

Bizzarramente, il cinema e la televisione hanno comincia-to a essere valutati per la loro importanza sociale e culturale prima della fotografia, che pure è madre di entrambi e li ha preceduti di molto come linguaggio della modernità.
Il cinema, partendo dalla fotografia, ha dato vita a una sintesi meravigliosa di linguaggi diversi, quali il teatro, la let-teratura, l’opera lirica, la pittura, la danza, per crearne uno nuovo, di straordinaria duttilità, che attraverso il montaggio, per esempio, giunge fino alla finzione di un tempo della vita che può includere nel presente i secoli, la memoria dell’infan-zia, persino il futuro.
La televisione, figlia a sua volta della fotografia, del cinema e della miracolosa capacità scientifica di inviare attraverso l’e-tere segnali, immagini nelle case di ciascuno di noi, ha creato una nuova, stupefacente quanto ambigua, universale agorà. Potente arma di coesione politica e sociale, costruttrice e nello stesso tempo devastatrice di valori culturali individuali e col-lettivi. Illusione di partecipazione alla vita del mondo in tempo reale – ci sei ma non ci sei – miraggio di finta, o quantomeno diversa, democrazia. Macchina portentosa per creare emozioni altrettanto portentosamente lavate vie dalle emozioni successi-ve. Magnifico marchingegno per anestetizzare e dimenticare.
La vita, insomma, come spettacolo visto da un treno in corsa.
Se cinema e televisione hanno straordinariamente cambia-to la nostra vita in questo modo sommariamente descritto, la fotografia vi ha invece inciso con modalità molto diverse.
Se sei stato colpito dal volto di una ragazza che hai visto dal finestrino di un treno e vuoi saperne di più, sapere di che co-lore sono i suoi occhi, decifrare il sentimento della sua espres-sione, allora devi scendere dal treno, come dice il mio amico e grande fotografo Gianni Berengo Gardin, devi avvicinarti e farle una fotografia.
Prima i poeti, gli scrittori – come sempre accade quando si tratta di capire come funzionano il cervello e il cuore degli uomini – ora anche gli scienziati, di quella scienza nuova che potremmo chiamare biologia della coscienza, sembrano avere scoperto, o immaginato, che la speciale forza del nostro rap-porto con la fotografia è dovuta alla grande affinità tra i mec-canismi biologici e neurologici della memoria, delle emozioni stesse e alla peculiarità propriamente tecnico-scientifica della fotografia, rivoluzione copernicana nella storia plurimillena-ria della misteriosa necessità che ha l’uomo di rappresentare sé stesso e il mondo. Questa rivoluzione consiste propriamente nel fatto che con la fotografia per la prima volta le immagini non sono più fatte, costruite dalla mano, ma prelevate direttamente dalla realtà immagazzinando su una superficie sensibile la luce riflessa dalle cose stesse. Immagine di tipo radicalmente nuo-vo, dunque, che contestualmente ai rapporti spaziali, lineari e tonali del mondo visibile implica e in un certo senso si illude di imprigionare anche il tempo in cui la registrazione è avvenuta.
Funziona allo stesso modo la memoria umana?
Milan Kundera, attraverso Rubens, personaggio del suo romanzo L’immortalità, ci offre questa ipotesi letterario-fo-tografica. Nel tentativo nostalgico di ricordarsi delle donne avute nella sua vita, Rubens scopre che la memoria non filma, la memoria fotografa. Ciò che egli ha conservato di quelle donne sono fotografie mentali, come mentali istantanee dei loro amplessi amorosi.
In letteratura gli esempi di descrizione diciamo “fotografi-ca” della memoria sono numerosissimi. Leggevo, in un’intervista del professore Edoardo Boncinelli, fisico, neurobiologo, questa frase: “L’idea compatta, di un continuo presente, che abbiamo di noi stessi, è un trucco, un inganno della nostra corteccia cerebrale. Essa ci fa apparire come un nastro ininterrotto quella che invece è una sequenza frammentata, una collezione di fotogrammi”.
Di che cosa sono fatte le emozioni?
Sono fatte di desiderio, sono fatte di paura. Di ricerca del piacere e della pienezza della vita, di paura del dolore, del decadimento, di terrore della morte. Quella che noi chiamiamo vita è fatta dal complesso tessuto di rapporti di conoscenza mentale, di esperienza estetica ed emozionale che abbiamo con la realtà. Questo complesso tessuto si va strutturando a poco a poco dentro di noi attraverso immagini del mondo e di noi stessi che tutte insieme a loro volta vanno a costituire quell’immagine individuale e collettiva che chiamiamo identità. Niente di più astratto, sfuggente, della nostra identità, e nello stesso tempo niente di più esposto al giudizio altrui, di più concreto, visibile. A cominciare dal nostro volto, il nostro corpo, immagine prima della nostra identità. Sorgente per eccellenza di emozioni: insicurezza, vanità, orgoglio, finzione, amore, desiderio, disprezzo, razzismo, rimpianto. Pensate a quanto da quasi due secoli la fotografia sia strettamente in-crociata e continui a incrociarsi con la nostra stessa idea di identità. Ma è mobile l’identità.
Le fotografie, infatti, cambiano, non rimangono uguali a sé stesse.
Le più predilette fotografie di un essere amato che ci ha tradito, di colpo ci provocano rancore fino a farcele violente-mente strappare. L’immagine divertente di una persona che muore, si carica di strazio. Perché non è vero che le fotografie restituiscono soltanto “ciò che è stato”, piuttosto, a me pare, ripropongono in una sorta di lancinante presente ciò che non è più. Forse è per questo che a poco a poco mi sono andato convincendo che la massima ambizione per una fotografia sia di finire in un album di famiglia. È quello, forse, il luogo dove le fotografie sprigionano le più profonde emozioni.
Se esistono fotografi specializzati nell’astuzia delle emo-zioni dei calendari di fine d’anno delle maggiorate di turno, sappiamo che non meno raffinati erano e sono gli interventi di ritoccatori il cui mestiere si apparenta più a quello del chirurgo plastico o del pittore di corte che a quello del fotografo. Non c’è grande differenza tra i quadri di David per Napoleone e certi ritratti, che tutti ricordiamo, trasformati in icone – quelli di Mao Tse-tung, per esempio, o di Mussolini o di Kennedy.
Il ritratto, dunque, ma non solo il ritratto. Il viaggio, anche. Le emozioni suscitate dalle immagini dei luoghi, dei popoli.
La fotografia era appena stata inventata e migliaia di fotografi carichi di allora pesantissime apparecchiature sciama-vano per il mondo intero riportandone immagini di luoghi e genti fino ad allora mai visti come la fotografia per la prima volta ce li ha fatti vedere. Pare che Gauguin abbia deciso di partire per la Polinesia dopo avere visto alcune di queste immagini paradisiache.
Il turismo di massa verso i tanti paradisi naturali e gli artificiali esotismi ed erotismi del mondo è ancora ampiamente basato su emozioni fotografiche che si insinuano nel nostro immaginario chiedendo imperiosamente di essere verificate in loco.
I turisti, specie assai diversa dai viaggiatori, non partono più per scoprire il mondo, per vivere e specchiarsi nell’esperienza della ricchezza e complessità di altri uomini e luoghi, ma per verificare che quelle fotografie dei dépliant e delle ri-viste di viaggio corrispondano a quello che potremo vedere frettolosamente fuori dagli alberghi a mezza pensione prenotati durante gli inverni della nostra quotidianità. E con altre fotografie comprovano di esserci stati davvero in quei luoghi.
La fotografia, straordinario strumento di conoscenza del mondo e della vita, potente linguaggio che ha ampliato il ventaglio delle nostre possibilità di cercare verità, di suscitare e provare emozioni, ha finito spesso per diventare piuttosto un muro tra noi e la realtà, uno strumento per indebolire, anestetizzare, sclerotizzare la nostra stessa capacità di vivere autenticamente i sentimenti.
Come tutti i linguaggi, anche il linguaggio fotografico ha elaborato i suoi strumenti retorici, le sue astuzie.

In una poesia, in un racconto, quello che ci emoziona, che ci fa riflettere, che ci seduce, è certo la storia, sono le argomentazioni, ma questo avviene perché l’autore ha scelto quel-le parole per raccontarla, ci interessa lo stile e la musica che emana dal testo.

Didascalie:
Kami, Bolivia, 1986 © Fotografie di Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto
Enna, 1962 © Fotografie di Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto

Bagheria, 1962 © Fotografie di Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto
Benares, India, 1972 © Fotografie di Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto
Sant'Elia, 1976 © Fotografie di Ferdinando Scianna / Magnum Photos / Contrasto
Le immagini sono tratte dal libro Ferdinando Scianna della collana Fotonote

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