Scrivere, fotografare, filmare. Un incontro con Elliott Erwitt

Pubblicato il : 04/12/2023 10:46:10

Elliott Erwitt ci ha lasciati qualche giorno fa, all'età di 95 anni. Qualche anno fa, gli avevo proposto realizzare insieme una serie di conversazioni in vista di un possibile, probabile volume su lui e la sua vita. Ecco il risultato del nostro primo incontro. Una conversazione rimasta finora inedita e un omaggio a lui, alla sua vita, al suo sguardo unico.

Roberto Koch
 
 

RK. Elliott, grazie di questa intervista. Parliamo un po’ della tua vita e di come hai cominciato a lavorare nella fotografia.
 
EE: Sono nato a Parigi, in Francia, nel 1928. Siamo poi andati a Milano e ho lasciato l'Italia quando avevo poco più di 10 anni. Era un periodo scuro: siamo partiti dall'Europa il 3 settembre e la guerra era stata dichiarata solo due giorni prima, il primo settembre 1939. È stato un bene andar via; se eri di una religione sbagliata, a quei tempi, chissà dove potevi finire.
Arrivato negli Stati Uniti, sono stato a New York per quasi un anno, con una mia zia. Andavo a scuola ma all'epoca non parlavo inglese. Poi, sono andato a Los Angeles con mio padre.
Los Angeles era una città piccola rispetto ad oggi, aveva una popolazione di 750.000 abitanti, mentre ora è di milioni. Era piuttosto provinciale, non c'erano autostrade. Lì ho frequentato le scuole medie e poi la Hollywood High School.
 
RK: E a Los Angeles hai iniziato a occuparti di fotografia.
 
EE: Sì, ho comprato una macchina fotografica a lastre e ho iniziato a lavorarci, forse non proprio a lavorare ma a divertirmi. Da lì sono passato a una Rolleiflex e quando sono diventato più ricco, sono passato alla Leica, la fotocamera standard per la maggior parte del mio lavoro personale.
E poi tanti altri tipi di macchina, a seconda del tipo di lavoro. Del resto, io ho cominciato molto in basso, fotografando i miei vicini di casa a Los Angeles, poi gli amici. Direi che ho iniziato a fare fotografia professionale quando sono arrivato a New York, alla fine degli anni Quaranta.
 
RK: Ma quando cercavi qualcosa di interessante per il tuo lavoro personale, passavi alla Leica.
 
EE: Non necessariamente. Ho sempre avuto una macchina fotografica con me, dovunque andassi, così ho realizzato le mie foto migliori. Allo stesso modo, sono un fotografo commerciale, nel senso che lavoro per le persone, per i clienti, per commissioni specifiche. E in questi casi, semplicemente, uso l'attrezzatura appropriata. Scrivere, fotografare e anche filmare: questo è il punto di partenza della mia carriera.
 
RK: Nei tuoi primi passi come fotografo ha incontrato Robert Frank, giusto? L'ha conosciuto a bordo di una nave, se non sbaglio.
 
EE: Eravamo entrambi prenotati sulla stessa Liberty Boat da New York alla Francia. Non è stato un caso, era il modo più economico per arrivare in Europa subito dopo la guerra. Ma avevo già incontrato Robert Frank: eravamo entrambi a New York in cerca di lavoro. Avevamo iniziato tutti e due a collaborare per Harper's Bazaar, che all'epoca era una rivista importante, e io cercavo di ottenere lavori commerciali ovunque potessi, mostrando il mio portfolio ai direttori artistici e tentando di farmi assumere per qualsiasi tipo di lavoro.
Andavo d'accordo con Robert Frank. Era un uomo meraviglioso ma una persona molto difficile. Forse il libro The Americans era già nella sua mente. Ma il suo lavoro precedente era stato in Perù, in Sud America; dopo, ha ottenuto una borsa di studio Guggenheim. Lui ha scelto la strada artistica e io quella commerciale.
 
RK: Realizzavi lavori corporate?
 
EE: All’inizio non lavoravo tanto per le aziende, non mi è mai particolarmente piaciuto quel tipo di lavoro. Ma le riviste negli anni Quaranta e Cinquanta, fino agli anni Sessanta, erano molto vive e c'era molto da fare per loro, reportage, illustrazioni, registrazioni...
 
RK: Avevi fatto qualcosa anche nel cinema.
 
EE: Sì. Dopo essere tornato in America dall'Europa con l'esercito americano (ero stato arruolato) ho lavorato nel cinema. Il primo film è stata una pellicola di William Wyler, con Humphrey Bogart, Ore disperateDesperate Hours del 1955 di cui mi sono occupato fin dall'inizio. È stata un'esperienza molto interessante per me: imparare a manovrare le luci, conoscere le star del cinema, andare d’accordo con loro...
Come fotografo, ho lavorato poi a lungo su The Misfits e in tante altre pellicole. Ma alla fine degli anni Ottanta, per circa 4 anni, ho lavorato per una società di produzione e ho girato 18 film per loro. In realtà, volevo dedicarmi ai documentari cinematografici e ne ho fatti alcuni per conto mio ma purtroppo non ho continuato. Dico purtroppo, ora, perché il mio periodo cinematografico è stato un momento meraviglioso. Comunque, dopo questi film, sono tornato al mio vero lavoro, che è la fotografia.
 
RK: Negli anni Cinquanta un incontro importante è stato quello con Edward Steichen.
 
EE: Ho contattato Steichen quando giravo con il mio portfolio cercando di ottenere un lavoro da chi avrebbe potuto raccomandarmi, o farmi lavorare con lui. Era un uomo molto comprensivo; non era distante, né freddo e a lui devo veramente i miei inizi nel mondo della fotografia. Lui mi ha introdotto a Roy Striker, un uomo molto influente nel nostro campo. Steichen gli disse: "C’è questo ragazzo, diamogli un lavoro", e così ho cominciato.
 
RK: Ti ha presentato anche John Morris.
 
EE: John Morris era l'editore del Ladies' Home Journal e andai a trovare anche lui col mio modesto portfolio. Mi diede il suo sostegno, però il lavoro principale che ottenni fu per uno studio all’epoca molto importante di fotografi pubblicitari, Valentino Serra. Ma non ho resistito a lungo; il tempo di restituire il favore a Steichen e mi sono messo in proprio.
 
RK: E la preparazione di Family of Man era già iniziata.
 
EE: La mostra Family of Man ha avuto una lunga preparazione che però, non mi ha coinvolto direttamente. Ho partecipato con qualche mia foto ma tutta la lunga ricerca è stata fatta principalmente da Wayne Miller, che lavorava per Steichen.
 
RK: La foto di tua moglie, tua figlia e del gatto sul letto è molto importante nella mostra e nel libro Family of Man. È stato semplice condividere la tua vita personale con il grande pubblico?
 
EE: Avere una famiglia è stato di vitale importanza per me. Avere una famiglia attraente, poi, è certamente utile per fotografare momenti intimi che non sono disponibili per chi non ha figli ed è senza famiglia. Addirittura, alcune delle mie foto migliori le ho scattate ai miei figli che crescevano.
 


RK: Intanto, eri già entrato a Magnum nel 1953, su invito di Robert Capa.
 
EE: L'avevo conosciuto prima del servizio militare. Poi, sono stato arruolato e mandato in Europa - cosa fortunata per me, durante il periodo della guerra di Corea. A Parigi, quando ero militare, l’ho incontrato di nuovo nell'ufficio di Magnum e mi ha detto che mi avrebbe preso una volta uscito dall'esercito. Il periodo di ferma era di due anni e quando fui congedato, nel 1952, la prima cosa che feci fu andare all'ufficio Magnum. Lui mi prese subito con sé.
Capa era un vero incantatore, un personaggio. speciale. Tutto ciò che lo riguardava era accurato, preciso. Unico.
 
RK: Quali altri fotografi erano già membri all'epoca?
 
EE: Erano quattro o cinque, a seconda di come si conta. C'erano David Seymour, Cartier-Bresson, George Rodger, Werner Bischof. Poi, Eve Arnold…
David Seymour era un meraviglioso organizzatore; l'unico a parlare di fotografia. Henri Cartier-Bresson era l'anima dell’agenzia e un uomo meraviglioso. Forse Capa, però, era il vero leader perché era rispettato e perché era "l'uomo dalle buone idee": conosceva gli editori, le riviste, ed è stato determinante nel prendere alcuni giovani fotografi dentro Magnum. E poi, aveva un grande senso dell'umorismo.
 
RK: Tu sei stato uno dei primi, dopo i membri fondatori.
 
EE: Sì, sono arrivato più o meno nello stesso periodo di Ernst Haas e Inge Morath. Tutti lavoravamo in bianco e nero tranne Ernst Haas, che è stato un innovatore. In quel periodo si lavorava per la stampa, cercando però di coltivare ognuno un interesse particolare. Henri in Estremo Oriente, Chim con i suoi lavori sui personaggi glamour del cinema italiano, George Rodger con le sue fotografie africane. Ognuno aveva un interesse speciale per la vita e per la fotografia.
 
RK: Lavoravi per Life?
 
EE: Qualche volta. Ma non era molto interessante. A Life avevano fotografi di staff che realizzavano le storie lunghe e interessanti. Noi facevamo le cose piccole.
 
RK: Durante i primi anni di lavoro a Magnum chi era il direttore, John Morris?
 
EE: Avevamo più direttori che...
 
RK: che fotografi?
 
EE: ...che sia permesso, per così dire. Cambiavano spesso. Credo che la durata media fosse di 4 anni, forse un paio hanno resistito di 6 anni. C'erano troppe personalità, troppi interessi personali… Ma in qualche modo, andavamo tutti d'accordo e il miracolo è che questa agenzia esiste ancora, dopo 70 anni.
Nel tempo, certo, l’editoria è cambiata. Le riviste hanno cominciato ad essere in crisi, e un tipo di lavoro più o meno giornalistico ha preso il posto dei grandi reportage, dei saggi. Una rivista meravigliosa che ci forniva assignment interessanti era Holiday Magazine, che finanziava molti lavori in tutto il mondo, e ci permetteva di mantenere i nostri diritti d'autore.
Io ho fatto ogni tipo di fotografia, compresa la pubblicità e la moda. Tra gli autori che più mi hanno influenzato dal punto di vista fotografico c’è senz’altro Gjon Mili, che era anche un carissimo amico e con cui ho condiviso lo studio per alcuni anni. L'incarico più interessante che ha avuto è stato per il governo israeliano: ha coperto il processo a Eichmann. Era insomma un giornalista, ma di tipo diverso. Un innovatore, una persona molto intelligente e ha fatto immagini spettacolari che vengono ancora copiate. Era un maestro del flash, come la famosa immagine di Picasso.
 
RK: L'incontro con Roy Striker è stato in qualche modo organizzato da Steichen, come hai detto. Con lui hai fatto un progetto per la Standard Oil.
 
EE: Striker stava costruendo una biblioteca di immagini, come aveva fatto prima per il governo, per le aziende private, come la Standard Oil nel New Jersey. Poi ha lavorato per Pittsburgh, dove mi portò, come uno dei numerosi fotografi, per documentare la demolizione della vecchia sezione della città, non il nuovo aspetto moderno di oggi. Ho partecipato a questo sforzo poco prima di essere arruolato nell'esercito nel 1950 e ho trascorso 4 mesi a Pittsburgh. Quelle sono probabilmente le mie foto più interessanti.
 
RK: Recentemente hai pubblicato un libro su questa città.
 
EE: Con alcune delle foto che non sono state distrutte, perché Roy Striker aveva la cattiva abitudine di fare buchi sui negativi che scartava. Comunque, aveva un buon fiuto per le foto buone.
 
RK: Era un buon editor...
 
EE: Nessuno è un buon editor per le tue foto. Nessuno. Anche se lo è.
 
RK: Quindi non ha mai incontrato nessuno che potesse aiutarti nella selezione delle immagini?
 
EE: Beh, non significa che tu abbia ragione. Ma credo certamente che i fotografi siano una razza speciale. Non si possono paragonare alle persone normali.





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