Obiettivo su di me di Philippe Halsman

Pubblicato il : 20/12/2023 14:52:43

Qui di seguito un testo scritto dall'enigmatico e originale ritrattista del Novecento, donatoci dal Philippe Halsman Archive. 

 
 

Trovo sia stato molto utile e importante, per me, che progetti esterni e incarichi da parte delle riviste mi distogliessero di continuo dall’attività di ritrattista. Un fotografo diventa stantio quando il suo lavoro si fa monotono: invece di scoprire nuove possibilità, si ripete; invece di usare l’immaginazione, si affida all’esperienza, cioè alla memoria, ed è destinato a perdere lo slancio. Come quel pittore francese la cui specialità era dipingere nudi di splendide donne e che dopo aver fatto per anni questo invidiabile lavoro sospirava: “Perché nessuno mi chiede mai di dipingere il nudo di uno splendido cavallo?”.
Lavorare in diversi campi della fotografia mi ha permesso di tornare al ritratto con altre idee, rinnovato entusiasmo e una comprensione più approfondita delle sue principali problematiche. Per lo più la gente è convinta che ogni foto di una persona sia un ritratto. In realtà, invece, la maggior parte delle istantanee amatoriali, o dei cosiddetti “ritratti” realizzati in studi professionali, e persino alcune immagini straordinarie scattate da fotografi famosi sono solo raffigurazioni la cui somiglianza è artificiosa, vuota o casuale. Un vero ritratto è qualcosa di completamente diverso. Ed ecco che arriviamo al problema fondamentale del ritratto: se le sembianze di un essere umano consistono in un infinito numero di immagini differenti, quale in particolare dovremmo cercare di catturare? La risposta più ovvia, ma forse più ingenua, è chiaramente: quella più importante, l’immagine che svela nel modo più completo possibile l’aspetto esteriore e interiore di un soggetto. Questo è ciò che chiamiamo ritratto. Se di un individuo non resta altra raffigurazione, un ritratto fedele dovrebbe essere, oggi come cento anni fa, una testimonianza del suo aspetto e di che tipo di persona fosse. Un esempio perfetto in tal senso sono i ritratti di Rembrandt. Ogni fotografo deve decidere cosa è più importante per lui, se catturare l’essenza del soggetto o realizzare una foto interessante. In altre parole, deve chiedersi: “Cosa conta di più, il contenuto o lo stile?”. Poco prima della Grande Guerra, i Balletti Russi di Djagilev arrivarono a Parigi. Djagilev divenne un grande innovatore e patrono delle arti: Stravinskij compose delle musiche per la sua compagnia; Picasso, Bakst e Chagall dipinsero le scenografie per i suoi spettacoli; Jean Cocteau andò a trovarlo e gli chiese: “Cosa posso fare per te?”, e Djagilev rispose: “Étonne-moi!” (“Stupiscimi!”). Fin da allora, uno dei principali obiettivi dell’arte moderna è stato stupire l’osservatore. Gli artisti del Rinascimento si sforzavano di essere bravi. Gli artisti moderni di essere originali. I pittori, gli scrittori, i drammaturghi – e anche i fotografi – vogliono stupire, sorprendere, impressionare. Attualmente la fotografia sta vivendo un periodo di profondi cambiamenti, con un’improvvisa esplosione di stili differenti. Oggi il fotografo si trova a competere con centinaia se non migliaia di colleghi e vuole distinguersi da loro, aspira a uno stile tutto suo. Afferma: “In pittura lo stile di un artista è di primaria importanza, il soggetto è irrilevante”. In pittura, quando si parla di un ritratto si dice: “Questo è un Van Dyke, un Velasquez, un Modigliani”. In fotografia dovrebbe valere lo stesso principio. E così il fotografo non fa che chiedersi se ha trovato il proprio stile. Spesso mi sono sentito dire da giovani fotografi: “Sto ancora cercando il mio stile”. Che solitamente significa: “Non ho ancora trovato un accorgimento che nessun altro abbia già utilizzato”. Ma un accorgimento è solo un vezzo manierista, e c’è una bella differenza tra stile e maniera, anche se la maggior parte delle persone li confonde. La maniera è qualcosa che si applica al proprio lavoro, mentre lo stile risiede nell’intimo di una persona. Tolstoj aveva uno stile, però pregava ogni giorno: “Dio, aiutami a scrivere in modo più semplice”. È facile imitare una maniera, ma per imitare lo stile di Tolstoj devi essere come Tolstoj, devi avere la sua filosofia, profondità, onestà, i suoi dubbi, le sue emozioni. Non c’è niente di sbagliato nell’usare trucchi, accorgimenti o maniere, che talvolta hanno prodotto immagini esaltanti e aiutato qualche fotografo a raggiungere un successo immediato. Ma si corre il pericolo che tutti comincino a imitare la formula vincente, facendola diventare un cliché, che alla fine, visto e rivisto, annoia il pubblico a morte. Capita così che la sola cosa che ha proiettato il fotografo verso il successo, lo trascina verso l’oblio; per restare alla ribalta deve di volta in volta inventare nuovi stratagemmi, e solo pochi fotografi di grande talento ci sono riusciti.
Ad ogni modo, quando un fotografo principalmente interessato a imprimere il proprio stile in ogni sua immagine si avvicina al ritratto, si imbatte in un’impasse. Più la sua personalità permea la foto, e meno l’immagine restituisce la personalità del soggetto, sollevando così la questione: cos’è più importante, scattare una foto straordinaria o realizzare un ritratto espressivo? Non esistono regole generali in fotografia. Ognuno deve risolvere i suoi problemi da sé, e io posso solo confidarvi come ho risolto i miei. Quando scatto una fotografia a una persona, penso di avere il diritto di ricorrere a qualsiasi trucco, accorgimento o maniera,
ma poi non posso considerare quell’immagine un ritratto. Quando invece cerco di realizzare un ritratto fedele, non tento di esprimere la mia personalità, cerco solo di catturare quella del soggetto. La personalità del soggetto? L’essenza di un essere umano? Perché un fotografo dovrebbe avere i requisiti per riconoscerla? Ecco un interessante paradosso. Se la competenza professionale di un ingegnere fa di lui un bravo ingegnere, la competenza professionale di un fotografo fa di lui un bravo tecnico e niente più. Solo se è un individuo attento e sensibile può comprendere e farsi un’idea della persona che ha davanti. Più sei profondo, più profonda sarà la tua fotografia. Ecco, dunque, cosa posso raccomandare a un giovane fotografo: di crescere come essere umano, più che accrescere le proprie competenze tecniche. Gli autori che si dedicano alla “fotografia spontanea” trascorrono giorni, o settimane con i soggetti, che alla fine dimenticano la presenza dell’obiettivo e tornano loro stessi. Io, invece, di solito realizzo i cosiddetti “ritratti in posa”. La sessione può durare un paio di minuti, come un paio di ore. Sta a me far rilassare il soggetto, o provocare una reazione, trasformando il confronto innaturale tra il soggetto e la macchina fotografica in un incontro spontaneo tra due persone. Di norma, cerco di restare solo con i miei modelli, solitamente con l’aiuto di un assistente discreto – che spesso nei viaggi è mia moglie Yvonne. In questo modo si crea un’atmosfera più intima, più raccolta. In alcuni casi resto in assoluto silenzio per non turbare il clima, in altri provo ad avviare una conversazione che permetta al soggetto di far emergere lo stato d’animo che voglio catturare. A volte procedo a tentoni, altre volte il caso interviene in mio soccorso e ogni resistenza scompare. Per un istante il soggetto dimentica di trovarsi davanti a un obiettivo, è davvero se stesso, colto in un momento di verità.
Occorre fare però un’importante precisazione. Non basta catturare una singola qualità. Immaginate di voler mostrare il vostro soggetto radioso, ma non ottenete altro che un sorriso felice. Potrebbe venirne fuori una fotografia efficace, ma un ritratto debole. Se lo attaccaste alla parete, vi stancherebbe dopo un paio di giorni. La Monna Lisa, invece, potreste guardarla all’infinito, perché dietro la sua espressione c’è molto altro – e d’altra parte il sorriso è quell’espressione che in giorni differenti avrà sempre significati diversi. È questa l’essenza di un’opera d’arte: non si esaurisce mai fino in fondo. Se un’immagine ha lo stesso significato per tutti, è già un cliché e non ha alcun valore artistico. Lo stesso si può dire del ritratto: se non coglie in profondità i tratti distintivi di una persona, non ha valore. Supponiamo di essere riusciti in qualche modo a catturare l’essenza del nostro soggetto. Ecco che ci imbattiamo in un nuovo problema: come mostrare ciò che abbiamo colto? La foto che abbiamo scattato si pronuncia sulla personalità del modello. Come dovrebbe essere presentata questa dichiarazione? Io credo nella più assoluta sincerità. Non voglio imporre le mie idee sui soggetti costringendoli ad assumere pose innaturali, dicendogli come piegare la testa o mettere le mani.
Voglio che siano loro stessi. Ma voglio anche esprimermi in modo forte e chiaro su di loro. Per esempio, non penso che la luce sia solo qualcosa da misurare per trovare la giusta esposizione: in una stampa bidimensionale la luce deve farci percepire la terza dimensione, ci deve mostrare i volumi e la profondità; ma soprattutto penso che sia un mezzo che ci aiuta a caratterizzare il soggetto. La luce può essere morbida o dura, e sarebbe una follia smorzare l’incisività di un volto con una luce piatta e diffusa, o ricorrere a un’illuminazione drammatica per mostrare un’espressione dolce e serena. L’angolo di ripresa è un altro strumento per caratterizzare i personaggi: fotografando dall’alto, accentueremo la fronte aggrottata di un pensatore, mentre con uno scatto dal basso daremo risalto alla mascella di un pugile. Su un volto femminile potremo far risaltare gli occhi – simbolo della sua anima – o le sue labbra – simbolo dei suoi sensi. Con una ripresa dal basso enfatizzeremo l’altezza di una persona, mentre dall’alto evidenzieremo la sua bassezza.
Ogni procedura – il taglio dell’immagine, il contrasto della carta fotografica, l’esposizione in camera oscura, persino la rotazione dell’asse dell’immagine – aggiunge nuove connotazioni psicologiche al ritratto, quindi bisogna essere certi che ogni passaggio rafforzi, più che indebolire, ciò che stiamo dicendo della persona fotografata. “Quanto sangue costa!”, disse Michelangelo a proposito di una sua opera, e quante volte, guardando un ritratto, l’ho pensato anche io! (senza essere Michelangelo). La gente per lo più non comprende cosa ci sia di così complicato nel fotografare un volto. Noterà la pelle liscia e senza imperfezioni, ma non la profondità di un’espressione. Fortunatamente esistono anche persone più interessate alla nitidezza dello sguardo del fotografo che a quella del suo obiettivo, persone che sanno che un ritratto fotografico può essere un importante documento, e che l’autenticità, la bellezza e l’impatto emotivo di questo documento può innalzarlo allo stesso livello delle opere d’arte. E capita, infine, che un fotografo riesca a conseguire la ricompensa più gratificante: che la sua interpretazione di un grande individuo ne diventi l’immagine ultima, quella con cui verrà ricordato nella storia dalle generazioni a venire.


Per le foto:

“Omaggio alla moda”, autoritratto, 1951, © Philippe Halsman Archive 2023;
Il fotografo Philippe Halsman, 1954, © Philippe Halsman Archive 2023;



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