Messa a fuoco PUNTO D'OMBRA di Teju Cole
Pubblicato il : 18/02/2025 10:59:58
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Il volume è introdotto da un testo della scrittrice Siri Hustvedt.
All’interno dell’occhio, nell’uomo e negli altri vertebrati, c’è un punto cieco in cui la retina incontra il nervo ottico. Quest’area, il disco ottico, è insensibile alla luce e non riceve informazioni visive. Tutti dovrebbero quindi sperimentare un punto d’ombra nel loro campo visivo – più o meno delle dimensioni di un’arancia tenuta davanti a sé con il braccio teso. Eppure, chi è dotato di una vista normale non ha dei buchi nella visuale. In qualche modo quell’assenza è riempita. Ma la domanda che non ha risposta è: come? Le ipotesi sono varie, e dipendono da una più ampia comprensione dell’organismo umano e del suo rapporto con quello che c’è al di là della pelle. Da tempo gli studiosi dibattono chiedendosi se vediamo il mondo direttamente o una sua rappresentazione generata internamente. In entrambi i casi, le tesi sono complesse, irrisolte, ricche di sfumature e, a seconda di come viene inquadrato il problema, non necessariamente contraddittorie.
Ci sono prove consistenti, però, a dimostrazione del fatto che la percezione non sia del tutto passiva – che non solo intro-iettiamo il mondo, ma che lo creiamo a nostra volta, e questo apprendimento fa parte di quella creatività. L’esperienza stabilisce dei modelli di ripetizione, e le ripetizioni diventano riconoscimenti che a loro volta generano predizioni sul mondo. A volte le nostre predizioni si rivelano sbagliate, e ne rimaniamo sorpresi. Ogni essere umano ha conosciuto momenti in cui il familiare diventa tutt’a un tratto estraneo o una cosa viene scambiata per un’altra. Una volta mi ero incamminata verso il mio riflesso, convintissima che fosse un’altra persona. Quell’errore era il risultato del mio disorientamento nello spa-zio, che a sua volta aveva reso distorte le mie aspettative su cosa era cosa e, in questo caso, chi era chi. Questo tipo di illusione fa emergere domande di carattere filosofico oltre che psicologico. Cosa significa vedere? Cosa è dentro la persona che guarda e cosa è fuori? Come possiamo analizzare ciò che vediamo?
“Vediamo il mondo”, scrive Teju Cole nel suo libro. “Questa semplice dichiarazione diventa… un contorto albero di significati. Quale mondo? Vedere come? Noi chi?”. Nella foto che accompagna il testo, vedo il muso di una macchina rossa parcheggiata dietro un furgone bianco contro un muro bianco. Sul furgone c’è la fotografia ingrandita di una classe con alcuni studenti in uniforme arancione, che lavorano tranquilli alla scrivania. Guardo nei recessi di quella stanza e so di vedere un’illusione di profondità sulla superficie quasi piatta del veicolo. Poiché l’immagine non è un dipinto, so anche che la stanza esisteva da qualche parte a un certo punto ma quel luogo è altrove. Vedo una fotografia dentro una fotografia, un mondo dentro un mondo, ma anche un inspiegabile trasferimento da un luogo all’altro. E poi penso anche: il furgone non è una rappresentazione, esiste nel mondo e porta per le strade l’immagine della classe.
Quando avevo letto le parole “Vediamo il mondo” e visto la relativa immagine scattata a San Paolo nel marzo del 2015, ero arrivata a pagina 182 del libro e avevo già fatto il giro del mondo. “Certo che Teju Cole gira un sacco”, mi ero detta. In tre anni era rimbalzato da Seul a Londra, a Lagos a Capri a Selma, tra molte altre destinazioni. Avevo dovuto guardare i nomi di alcune delle città di cui parla e individuar-le su una mappa per orientarmi. Teju Cole sfreccia da una città all’altra. Teju Cole esplora un avamposto dopo l’altro e sottolinea quei balzi volanti con commenti scritti e visivi. L’occhio della macchina fotografica non è come l’occhio umano. La camera riporta tutto all’interno di un’inquadratura, noi no. Gli esseri umani hanno una visione periferica scarsa e i dettagli svaniscono perché non possiamo mettere a fuoco tutto e subito. Le sequenze si sfocano. Prestiamo attenzione a ciò che è più importante per noi – quando abbiamo fame una ciambella assume un fascino che non ha altrimenti. Siamo portati ai pregiudizi culturali, che variano da un luogo all’altro e sono notoriamente ostinati e spesso inconsci. Il sessismo e il razzismo nascono da percezioni distorte, dal sopravvalutare la mascolinità e il bianco della pelle trattandoli come categorie assolute, cosa che non sono. Noi, tutti noi, siamo soggetti a queste snervanti forme di cecità.
Quando l’otturatore si chiude, il mondo si ferma in un’in-quadratura. Anche le parole vengono fissate dalla scrittura. Eppure, le immagini e le parole sono inattive finché non vengono viste e lette. Io, lo spettatore-lettore, animo il libro, ed essendo vivo, sono un corpo in movimento. Il ritmo del libro è stabilito fi n dalla prima frase e dalla prima fotografia. È il ritmo di un filosofo peripatetico, il pensatore itinerante che mette un piede davanti all’altro. La musica cinetica del corpo non è separabile dai pensieri o dalla loro metafora. I piedi si muovono e le connessioni mentali avvengono un passo dopo l’altro. “C’è un legame segreto, un’unione tra idee particolari, che spinge la mente a unirle più di frequente e fa in modo che una introduca l’altra appena compare”, scrisse David Hume. Ma i passi fatti in questo libro non sono di logica deduttiva o induttiva. Seguo un sentiero tortuoso non dritto, che si di-rama in tanti sentieri, che poi si incrociano continuamente durante il mio viaggio nel libro.
Fin dall’inizio, leggo e guardo. Trovo “un contorto albero di significati” tra testo e immagine, un bosco metaforico. Nella prima pagina mi trovo nello stato di New York, in una piccola città che si chiama Tivoli. Nella foto vedo l’ombra dei rami nudi di un albero che si propaga su una strada. Oltre quella strada, vedo una siepe con la sua prima crescita di minuscole foglie. Una casa bianca si leva al di là del nebbioso schermo della siepe. Comincio a leggere. “La primavera è giapponese, persino in America”. Davvero? È una frase sorprendente. Ma quando guardo la fotografia, l’ombra dell’albero evoca le infinite immagini dei rami nell’arte giapponese, di solito in piena fioritura primaverile (qui i boccioli sono evocati dall’associa-zione, ma non compaiono dall’immagine). La primavera, il tempo della nascita, della fi oritura, delle emozioni intense.
“Non crescono solo le foglie,” scrive Cole, “anche le ombre crescono. Tutto cresce, le cose che assorbono la luce, le cose che la riflettono”. La luce e le ombre sempre più lunghe che crea sono seguite da una similitudine, “il più” del mondo che “prolifera come ramificazioni nervose”. Sono trasportata da una sfera all’altra, dalle ombre degli alberi in una strada al cervello racchiuso nel mio cranio, con milioni di minuscoli neuroni e i loro prolungamenti di assoni e dendriti. Subito dopo leggo che la primavera è “la stagione più malinconica” e vengo portata indietro nel tempo, alla Sparta del settimo secolo e alle parole sul cibo del poeta Alcmane. La poesia di Alcmane consiste di frammenti, detriti di parole da un’epoca svanita: “Le stagioni sono tre: estate, inverno, autunno. Primavera è la quarta: gran fioritura, ma si mangia poco”.
Cole scrive, “La resurrezione è troppo vicina alla morte.” Il termine resurrezione evoca la storia cristiana e la Passione di Cristo. Immagino le donne che arrivano al sepolcro e lo trova-no vuoto perché l’uomo è risorto. Ma quella parola ha spinto i miei pensieri e la mia immaginazione ben oltre il testo. Il riferimento alla resurrezione è l’ambiguo confine tra la morte dell’inverno e la rinascita della primavera, che è subito seguito dagli occhi che si riaprono dopo il sonno.
Poi riconosco il titolo di un fi lm: Sans Soleil. L’ho visto, e sorrido. Chris Marker, il regista, aveva girato il mondo an-che lui e aveva fatto un fi lm sui suoi viaggi. Alcune sequenze importanti sono girate in Giappone. La prima frase del fi lm, pronunciata da una donna invisibile, è questa: “Scrisse: ho fatto parecchie volte il giro del mondo, e ora solo la banalità mi interessa ancora”. Il documentario è una meditazione filosofica sulla memoria, il tempo, lo spazio e la visione. La voce narrante del fi lm parla delle lettere che le aveva scritto un regista, Sandor Krasna, maschera di finzione o pseudonimo per Marker (è bene ricordare che nella storia della letteratura e della filosofia, queste maschere a volte prendono vita in modo indipendente). Il fi lm salta dall’Islanda alla Guinea-Bissau, dal Giappone a San Francisco. Il testo di Cole finisce con una storia narrata nel fi lm. Un uomo ama una donna che muore. Si butta nel lavoro e in maggio si toglie la vita. “Dicono che non sopportasse più di sentire la parola primavera”.
Un paragrafo di testo e una singola foto hanno generato un mare d’immagini, pensieri, riferimenti. Alcune delle associazioni mentali sono evidenti, altre velate o mascherate – si trovano se ci si sforza di cercare, ma se non si guarda e legge attentamente, se non ci si prende il tempo per scoprire ciò che giace nelle parole, tra le parole e oltre le parole, si rimane ciechi al loro significato. L’albero che getta la sua ombra non è nell’inquadratura. Il frammento di Alcmane non è citato integralmente nel testo, è solo accennato. Il ciclo delle stagioni, di sonno e veglia, morte e nascita, presenza e assenza, il confine sfocato tra gli uni e gli altri aprono Punto d’ombra.
L’allusione a Sans Soleil non è quindi semplicemente un rimando alla storia di un suicidio primaverile in Giappone, ma al fi lm nella sua interezza, a quello che di fatto manca dal testo e dall’immagine di Cole. Il film non è una documentazione cronologica dei viaggi di un uomo. Il film stabilisce ben presto schemi che non obbediscono a una logica sequenziale, e non è nemmeno organizzato secondo spazi prossimali; la periferia è importante quanto il centro. Il tributo di Cole a Marker è un annuncio della sua forma di libro, della sua invisibilità, del tema centrale. Il pubblico del fi lm non vede mai Marker/Krasna, ma ascolta un’altra persona che legge le sue lettere.
Il lettore-spettatore non vede nemmeo Teju Cole. Leggo le sue lettere silenziose con la voce del mio narratore interno e guardo le sue immagini sulla pagina. C’è solo un “selfie” in questo libro, e non viene scattato. L’idea di scattarlo avviene in sogno, in un’altra sfera d’ombra. Quando si sveglia, lo scrittore ricorda il desiderio di avere un’immagine di se stesso con la principessa Diana, che è viva nel sogno ma morta da tempo nella realtà. Anche la dichiarazione di Krasna, quando afferma che ormai gli interessa solo la banalità, aleggia die-tro questo riferimento. Cole scrive che non gli interessano i luoghi turistici, anzi, li evita. Le fotografie in questo libro hanno poco a che fare con le immagini patinate e perfette dei volumi che ingombrano i tavolini di tutto il mondo. Non sono nemmeno foto “artistiche”, idealizzate. Mettono l’enfasi sull’ordinario.
Lascio una pagina e passo alla successiva, e a ogni nuovo foglio trovo “un legame o un’unione tra idee particolari”, come scrive Hume, un’associazione di una parola o un’immagine che mi porta sempre più dentro il libro. Scopro che la mia fantasia delle donne alla tomba di Cristo, scatenata dal-la parola resurrezione, anticipava un tema ricorrente di morte, tombe, croce e sepolcri, oltre a ciò che è nascosto e visibile.
Tutti camminano sui morti, perché camminiamo sulla terra. L’autore ci dice di aver perso la fede. Da ragazzo credeva, e il mondo sembrava diverso. La fede religiosa crea un ordine nella visione che svanisce in sua assenza. Credevo negli angeli da piccola, quei messaggeri alati tra cielo e terra, e gli compaiono varie volte nel testo di Cole, come fi gure transitorie che superano i confini e sfidano le leggi della gravità, inconsistenti o consistenti come i desideri, le allucinazioni e i sogni degli esseri umani.
Il sudario della Bibbia cristiana cambia varie forme – il telo bianco che riceve il corpo di Cristo quando viene tolto dalla croce e i lenzuoli lasciati nella tomba vuota diventano altri materiali, rappresentati da parole e immagini, tessuti che riflettono la luce o si gonfiano nel vento, che ricoprono corpi o edifici e automobili. Ma ci sono anche riferimenti ai drappeggi raffigurati nei dipinti rinascimentali e barocchi, prove di talento dell’artista ma anche testimonianza d’idee visive in cui i confini netti tra interno ed esterno si perdono nelle pieghe. Vedo una scala in una foto prima di leggere la parola scala alla pagina seguente. Man mano che avanzo nel libro, passo da un’immagine concreta a un pensiero astratto. Le scale mi portano su e giù. Salgo con Giacobbe. Temo di cadere, come l’autore, e con lui, ricordo la scala della Divina Commedia e la rivedo con l’occhio della mente. I miti e le storie greche circolano in tutto il testo – la morte di Agamennone, i piedi alati di Ermes, i piedi gonfi di Edipo, la cecità che si era inflitto. Piedi che volano, zoppicano, si trascinano in tutto questo volume peripatetico. Una foto misteriosa di due tubi, uno accanto all’altro, che sembrano gambe. Occhi che si aprono e si chiudono. Occhi che vedono, diventano ciechi, si chiudono con la morte. Un mito, una sto-ria si collega ad altre storie e immagini, sia nel libro come nella mente di chi tiene il libro in mano. Immagini create da artisti scomparsi da tempo vengono evocate dalle parole: Caravaggio, Dürer, Degas, Hitchcock. Poeti morti che parlano: The-odore Roethke, Seamus Heaney, Gerard Manley Hopkins, e Kofi Awoonor, il poeta ghanese ucciso dai terroristi nel West Mall di Nairobi nel 2014, vicino a dove si trovava Teju Cole, un’orribile combinazione di spazio e tempo, una collisione di caso e crudele ideologia.
Onnipresenti sono gli atti mostruosi commessi allora e adesso in nome delle idee – roghi di streghe, crimini del Ku Klux Klan, il genocidio nazista di Hitler, l’abuso dei bambini poveri in Svizzera, i Verdingkinder, strappati dalle loro case e costretti a lavorare nei campi; i pogrom indonesiani, tuttora non riconosciuti dal regime, l’11 settembre a New York; la brutalità dell’ISIS e gli assassini di cittadini di colore per mano della polizia americana. Questi eventi sanguinosi non si vedono nelle immagini. Cole sta andando a una dimostrazione di Black Lives Matter. Scatta una foto: cinque sedie pieghevoli schiacciate tra un veicolo e un idrante. Non vi fate ingannare: protesta e indignazione covano in queste pagine come una pentola ribolle a fuoco basso.
In una pagina, leggo che la grande abolizionista nata in schiavitù Sojourner Truth, vendeva foto di se stessa. “Ven-do l’ombra per sostenere la Sostanza” aveva detto. Le foto di Cole sono anche ombre di cose che potrebbero o meno esistere ancora e di momenti che non si ripeteranno mai più. Dopo la frase di Sojourner Truth, trovo i primi versi di una poesia di Tomas Tranströmer, un poeta che conosco bene: “Spesso l’ombra è più reale del corpo. Il samurai sembra insignificante accanto alla sua armatura di nere squame di drago”. La poesia è “After a Death”. La seconda stanza, che non compare nel testo di Cole, è importante quanto i versi citati: Si può ancora andare piano sugli sci nel sole invernale attraverso cespugli con qualche foglia rimasta. Sembrano pagine strappate da vecchie rubriche telefoniche. Nomi ingoiati dal freddo.
Le poche foglie rimaste sugli alberi in inverno sicon i nomi, molti ormai morti, che non sono più sostanza ma solo segni. L’elegia sostituisce il corpo che è scomparso e parole diventano più reali. La stanza è letteralmente un punto d’ombra in Punto d’ombra, un’assenza che devo riempire, come la mente riempie lo spazio vuoto nel campo visivo.
Un mattino del 2011, Teju Cole si era svegliato cieco da un occhio. Soffriva di papilloflebite, cioè di minuscole perforazioni della retina. L’impossibilità di vedere da un occhio impedisce la percezione della profondità, e Cole informa il lettore che faceva fatica a camminare. Lo spazio cambia se non puoi vedere le sue estensioni. Non è così facile mettere un piede davanti all’altro. Il passo di una persona, il ritmo dei suoi passi, deve cambiare per adattarsi alla visione alterata, ma inevitabilmente c’è una distorsione corrispondente nel pensiero. Cole era stato operato per correggere le lacrime retiniche, e aveva avuto problemi di vista per mesi quell’inverno. Scrive “Dopo, l’atto di fotografare è cambiato, così come quello di guardare”. Era diventato necessario ritrovare l’orientamento.
“Poiché siamo nel mondo”, scrisse Maurice Merleau-Ponty nella sua prefazione alla Fenomenologia della Percezione, “siamo condannati al significato”. Il filosofo Merleau-Ponty è citato due volte in Punto d’ombra. Vedere il suo nome in questo testo non mi ha sorpreso. Ben prima di trovare i riferimenti a lui, mi era chiaro che il progetto di Teju Cole era di natu-ra fenomenologica, lo studio della coscienza incarnata di una persona in relazione al mondo visibile. Merleau-Ponty parlava della fenomenologia come della “volontà di afferrare il significato del mondo… mentre quel significato viene alla luce”. Mi piacerebbe modificare quella dichiarazione con un plurale, i significati del mondo perché proliferano, crescono, si moltiplicano. È vero che questi significati non sono subito evidenti, a volte ci sfuggono. A volte le nostre aspettative ci rendono ciechi. E a volte un periodo di cecità ci apre a visioni che non abbiamo mai visto prima.
Didascalie:
Capri, giugno 2015 © 2016, Teju Cole
Queens, maggio 2015 © 2016, Teju Cole
New York, maggio 2015 © 2016, Teju Cole