Franco Fontana. Una retrospettiva (Contrasto) è il catalogo che celebra l'opera del grande e geniale autore e accompagna la sua prima grande mostra monografica curata da Jean-Luc Monterosso e ospitata fino al 31 agosto 2025 al Museo dell’Ara Pacis di Roma. Un fotografo eclettico, che si è cimentato con successo in vari generi fotografici. La scelta dei soggetti, che siano paesaggi rurali, industriali o urbani, risulta sempre secondaria rispetto ai due protagonisti assoluti della sua pratica artistica: il colore e la geometria.
Attraverso queste due "leve", che Fontana maneggia in modo magistrale, le fotografie dei suoi paesaggi non si limitano a rappresentare la realtà, ma ne creano un'astrazione fatta di colori forti, contrasti saturi, linee nette e marcate. In un'epoca in cui si ricercava l'astrazione quasi esclusivamente attraverso il bianco e nero, Fontana inventa un linguaggio nuovo, elegante ed unico, subito apprezzato a livello mondiale.
In questo numero di Tank, un estratto di "Fontana secondo Fontana": uno zibaldone di pensieri, frammenti di conversazioni, interviste, discussioni, chiacchiere a fondo perduto, scambiate con Franco Fontana nel corso di quarant’anni di frequentazione e amicizia, e raccolte e riorganizzate nel volume da Michele Smargiassi.
FONTANA
SECONDO FONTANA
Uno zibaldone di pensieri
Raccolti da Michele Smargiassi
L’arte è rendere visibile l’invisibile. Perché è l’invisibile che sorregge il visibile. Ho potuto fotografare quell’albero, che vedo, solo perché possiede radici, che non vedo. Le radici sono quello che non potete vedere. Ma contano più di quel che vedete. Il pensiero non si vede, ma senza pensiero non vedi nulla.
“Rendere visibile l’invisibile” è il mio mantra. Significa mostrare a tutti ciò che tutti vediamo, ma sotto un aspetto in cui abitualmente non lo vediamo, in maniera da poterlo vedere veramente, e finalmente.
Non ho mai fatto astrazioni. In fotografia esiste il pensiero, non l’astrazione. Quella nuvola, che in una mia fotografia sembra astratta, sicuramente non lo è per un meteorologo. Però è vero che non puoi fare il fotografo se pensi che una nuvola sia solo una nuvola.
Io costringo l’oggetto a significare una certa cosa, che non sa di essere. Se non lo facessi, l’oggetto continuerebbe a vivere pacifico la sua oggettività, mentre io vado proprio a violentarlo, è una violenza necessaria per scrollargli di dosso le consuetudini che rendono cieco lo sguardo, e farlo diventare mio.
Non imbroglio nessuno, non confondo nessuno. Non nego l’esistenza reale delle cose: nelle mie fotografie, ogni cosa rimane presente. Un albero resta un albero, una nuvola resta una nuvola. Ma quando li trasferisco nelle mie fotografie, cambiano esistenza, diventano forma che porta significato. Cambio l’esistenza delle cose, perché attribuisco loro un’essenza.
Una violenza, fotografando, c’è sempre. Devi violentare il soggetto se vuoi estrarlo dall’oggetto. Venezia va violentata, io l’ho fatto. Non ho danneggiato Venezia, l’ho soltanto trasformata nella Venezia fotografata da me.
La fotografia è violenza perché sei tu a decidere che un oggetto deve significare un’altra cosa oltre a quella che è. Tu scomodi l’oggetto, lo disturbi, lo forzi a diventare altro da sé, non lo lasci riposare nella sua placida oggettività.
Rincorrere l’oggettività è inutile, ci sfuggirà sempre.
Tutto quello che ho fatto nel mio lavoro è stato trasformare una materia prima. Mi è bastato cambiare il linguaggio di quella materia prima, farla parlare secondo i miei significati.
Quando dico “cancellare per eleggere” sembra un ossimoro, me ne rendo conto. O una cosa impossibile. Invece, è una cosa molto semplice. Il meno che significa il più, come diceva Sant’Agostino.
In fondo mi limito a fare pulizia, estraggo alcuni elementi essenziali dalla totalità che si presenta all’occhio umano. È una mia esigenza interiore: trovare unità armonica attraverso la cancellazione di tutti gli elementi di disturbo. Forse qualcosa nella mia psicologia pretende unità armoniche e semplici.
[...]
Mi definiscono paesaggista. Ma io non ragiono per generi. Io seleziono porzioni dello spazio in cui riconosco una forma che per me ha un significato, a cui posso dare un significato. Le interiorizzo e le restituisco agli altri. Io non faccio paesaggi, io divento il paesaggio. Semmai, faccio autoritratti....]
Sono arrivato alla fotografia dopo aver fatto molte altre cose nella vita. Ma non ho imparato da nessuno. Non ho mai imitato, non ho mai copiato. Sono acqua di sorgente. Ho ammirato tanti prima di me, ma non ho seguito nessuna strada che fosse stata già percorsa.
Fotografavo d’istinto, come il bambino che si affaccia al mondo, semplicemente, fotografavo qualsiasi oggetto mi dicesse qualcosa, mi lasciavo convincere dalle sensazioni.
Agli inizi ho cercato questa essenzialità nei paesaggi della Puglia e della Basilicata, perché erano già quasi vuoti, a differenza dei paesaggi emiliani così ingombri di capannoni, cavi elettrici, case, macchine agricole. Laggiù invece ho trovato grandi campiture colorate che si incrociavano senza che nulla interrompesse la forma sinuosa della terra.
Mario Giacomelli mi amava e io ho amato lui. Sembra impossibile da dire, ma Mario ha lavorato a colori, anche se ne ha usati solo due, il bianco e il nero. Siamo diversi e affini. Entrambi abbiamo reinventato la realtà oggettiva, abbiamo usato la bidimensionalità per annullare la prospettiva e disorientare lo spazio. In un modo diverso, anche con Luigi Ghirri è accaduta la stessa cosa: avevamo sguardi differenti ma sensibilità vicine.
Fotografo a colori perché vedo a colori. Del resto, il bianco e nero è un’invenzione per rileggere la realtà. Chi fotografa in bianco e nero è il primo a non accettare il mondo com’è.
Fotografare a colori è difficile. Il bianco e nero, un fotografo se lo trova già “inventato”. È già in partenza un contrabbando simbolico della realtà. Il colore invece viene direttamente dalla vita, per questo è così difficile farlo tuo, reinventarlo.
Scegliere il colore per me è stato naturale, il colore è la mia essenza. Ma, quando ho iniziato, non era una cosa accettabile nel mondo autoriale. Cartier-Bresson diceva che il colore in fotografia si poteva realizzare solo in astratto.
Sono contento di aver potuto dimostrare il contrario, superando quella che mi è sempre sembrata una dichiarazione di impotenza.
Il mio colore non è un bianco e nero “riempito”. Non è decorazione sovrapposta alla forma. Per me il colore è la vita stessa, non una torta gelato; è un soggetto, non un oggetto. È forma, non superficie.
I colori esistono, ma bisogna dirli. Reinventare i colori vuol dire giustificarli. Non per dimenticare il reale, per trasfigurarlo in mentale. Come diceva Paul Klee, “il colore è il luogo dove l’universo e la mente si incontrano”.
Sono il fotografo più facile da copiare al mondo. Se uno si accontenta di copiare solo due linee e tre colori. Quando un fotoamatore “fa un Fontana”, magari per ironizzare su di me, non capisce che sono io che gli ho insegnato a guardare, a vedere quelle forme e quei toni. Solo che, copiando una forma, lui perde per strada il significato, che era mio.
[...]
Una fotografia è come il lampo del fulmine che di notte ti illumina il paesaggio per una frazione di secondo. Poi tutto scompare di nuovo nel buio, ma sulla retina dell’occhio ti resta l’impronta vaga di qualcosa, che magari è un sentiero.
Ogni tanto qualcuno suona alla porta di casa mia e dice: “Sto cercando Franco Fontana…”. Vorrei rispondere: “Ah sì, lo sto cercando anch’io”.
[Frammenti di conversazioni, interviste, discussioni, chiacchiere
a fondo perduto, scambiate con Franco Fontana nel
corso di quarant’anni di frequentazione e amicizia, e qui
raccolte e riorganizzate da Michele Smargiassi]
Didascalie:
I dogi della moda, Paco Rabanne,1984 © Franco Fontana
Mare del Nord, 1976© Franco Fontana
Piscina, 1983 © Franco Fontana
Phoenix, 1979© Franco Fontana