Ingranditore Lettere sulla luce di Paolo Roversi ed Emanuele Coccia
Pubblicato il : 20/01/2025 11:09:51
Ecco le prime due lettere di un lungo, affascinante carteggio intorno al senso della luce e alla sua scrittura, la fotografia. Non perdete l'occasione di immergervi nelle riflessioni dei due autori!
PAOLO ROVERSI
Parigi, 19 giugno 2021
Caro Emanuele,
Stamattina appena sveglio e ancora in dormiveglia, pensavo agli albori della fotografia e quindi, obbligatoriamente, al sole, fonte di ogni luce e di conseguenza di tutte le immagini.
Se la parola “fotografia” significa scrittura o disegno della luce, chi è più fotografo del sole?
È lui che illumina la terra, la disegna, la scolpisce, la dipinge in una varietà infinita di figure, di ombre, di contrasti, di sfumature. È il sole che ci mostra e racconta la terra e con la sua luce l’avvicina al cielo. Per noi imparare a fotografare ha significato imparare a fissare su una pietra, una lastra, un foglio di carta, i disegni di luce del sole, trascrivere con i nostri piccoli marchingegni le fotografie del sole. Forse i primi a tentare di fissare un’immagine furono gli Egizi, facendo posare un soggetto accanto a una lastra di pietra e scolpendo su questa il contorno del suo profilo, disegnato dalla sua ombra.
Per non annoiarti con la storia della fotografia, salto direttamente alla camera oscura: una scatola di legno con un semplice foro o una lente sul lato frontale che proietta un’immagine capovolta sul lato opposto della scatola dove può essere posto un foglio di carta di riso o carta da calco su cui ricopiare l’immagine. Questa tecnica, che già comporta l’elemento inquadratura e la verosimiglianza perfetta, fu usata da diversi artisti, quali Vermeer, Canaletto e tanti altri. Poi è arrivato Nicéphore Niépce, che con un colpo di genio ha sostituito la carta di riso con una lastra ricoperta di bitume di Giudea, materia sensibile alla luce, ottenendo così un’immagine non più ricalcata a matita sul foglio, ma fissata dalla luce stessa sulla la stra. Fu così che Niépce realizzò quel vecchio sogno secolare dell’uomo, di trattenere su una superficie il disegno del sole. Era il 1827 quando, nella sua casa di Saint-Loup-de-Varennes, Niépce, dalla finestra della sua camera sul giardino, realizzò quel famosissimo Point de vue du Gras che viene considerato la prima fotografia di sempre. Più di un secolo dopo, durante una visita in quella casa, ho avuto l’opportunità di pernottare in quella stanza; ho trascorso la notte sotto quella finestra, sdraiato sul vecchio pavimento di legno, ancora macchiato dal bitume di Giudea e dall’olio di lavanda. Al mattino, svegliato dai primi raggi del sole, ho cercato di onorare quel sacro tempio realizzando diverse fotografie. Points de vue, così Niépce ha chiamato le sue prime immagini e mi sembra che ancora oggi non esista formula migliore per nominare le fotografie. Point de vue implica inquadratura, posizionamento, scelta, opinione e soprattutto una visione soggettiva e personale.
La storia della fotografia è anche la storia della luce e viceversa. È una storia ancestrale: all’inizio c’è il sole, un’enorme palla di fuoco che emana calore e luce, e poi l’uomo ha imparato a fare il fuoco da sé. Così ha creato come un piccolo sole “fatto in casa” che per la prima volta ha illuminato le sue notti. Poi, dopo il sole-falò è arrivato il sole-luce a gas, poi lampada elettrica, poi lampo al magnesio, flash elettronico e tante altre fonti di luce, nessuna di queste, ovviamente, capace neppure di competere con l’energia e la potenza di quella originaria. Credo si possa affermare che la fotografia, in quanto disegno della luce, sia sempre esistita. Sono cambiati i vari modi di concretizzarlo, ma questo disegno della luce c’è sempre stato. Da quando la prima luce ha illuminato e quindi disegnato un corpo, la fotografia esiste. Sotto varie forme, si è sviluppata con il disegno a mano degli Egizi sulle ombre, poi con il dagherrotipo di Daguerre, con le prime fotografie su carta, poi con la Polaroid, e oggi con lo smartphone. Quando alle tre del pomeriggio, un lato della piramide di Cheope è illuminato dal sole e un altro no, proiettando così un’ombra come un grande negativo sulla sabbia, questa è già una fotografia. Se sei lì, avere la fotocamera, uno smartphone o qualche altro strumento significa solo possedere strumenti diversi per registrare la fotografia che il sole sta producendo.
Per questo la fotografia è sempre esistita: è stato solo necessario trovare ogni volta il modo pratico e tecnico di concretizzarla. Il sole ha sempre illuminato la terra, l’ha sempre disegnata con la sua luce, ovvero l’ha sempre “fotografata”. Da lungo tempo, il sole disegnava ogni giorno il giardino di Gras, con i suoi tetti e la sua piccionaia, fino a quando Niépce è riuscito a copiare quel disegno e a farlo nostro per sempre, trattenendolo e fissandolo su una superficie sensibile alla luce e facendo così diventare anche noi fotografi – fotografi “minori” che lavorano per il sole e grazie al sole. Siamo tutti dei piccoli impiegati del sole, siamo solo dei piccoli scribi del sole, con le schiene ricurve sulle nostre Rolleiflex intenti a copiare i suoi disegni.
Un grande abbraccio,
Paolo
EMANUELE COCCIA
Parigi, 8 luglio 2021
Caro Paolo,
Hai ragione tu: il sole è il vero fotografo. La fotografia è insieme una delle forme della relazione che il sole intrattiene con la terra: è il modo che il sole ha di toccare il nostro pianeta, di accarezzarlo, di imprimere la propria impronta, anche se fugace e passeggera, sulla sua superficie e sulla pelle di tutte le cose. Sole e terra non hanno una relazione puramente fisica, astronomica, ma una relazione speciale – fatta di contatto prolungato e ripetuto, di ritrovamenti: in fondo Gaia ruota intorno al sole, ed è questa stessa ossessione che le impone di girare su sé stessa. La fotografia è la scrittura di questa ossessione: è come l’insieme dei segni che una mano o una bocca lasciano sulla pelle del corpo amato. Da questo punto di vista la fotografia è insieme la scrittura del sole sulla terra, la dimostrazione del suo amore, il diario che essa scrive sul corpo dell’amato. Ma è anche l’insieme delle tracce che la terra custodisce dell’incontro quotidiano con l’oggetto della sua ossessione.
La fotografia è anche una delle fasi, degli stadi della relazione millenaria e ancestrale che la specie umana intrattiene con il sole. Questa relazione ha definito la nostra posizione speciale tra il resto dei viventi: siamo l’animale che ha costruito una relazione speciale con il sole, il vivente che è riuscito a addomesticarlo. L’antropologia contemporanea riconosce la conquista del fuoco come il momento fondativo della nascita della cultura della specie. Il fuoco è stato il modo attraverso cui abbiamo portato il sole a terra – e sulla terra –, e ne abbiamo fatto qualcosa di domestico, portatile, intimo. E soprattutto abbiamo slegato la presenza della luce alla dinamica planetaria. La luce è diventata una presenza indifferente al ritmo del giorno e della notte e ha potuto avvicinarsi alle cose e ai volti. È da questo punto di vista che la tecnica fotografica non è che una delle forme che l’umanità ha voluto e saputo dare alla presenza della luce nella sua vita. E una delle forme del suo addomesticamento. Pensare la fotografia da questo punto di vista è qualcosa di rivoluzionario e radicale per due ragioni. In primo luogo, da questa prospettiva, non ha più senso chiedersi se la fotografia sia un’arte o meno. Si tratta di qualcosa che tocca la stessa possibilità di essere umani e ci permette di portare alla nostra statura la storia d’amore che esiste tra il sole e la terra, il corpo a corpo tra la luce e la materia che essa stessa, del resto, ha generato. In secondo luogo, l’immagine prometeica della fotografia e della sua tecnica viene ridimensionata.
La fotografia non è tecnicamente più avanzata dell’addomesticamento del fuoco. È una delle forme che ci permettono di portare a casa la luce. E non ha nulla di particolarmente moderno: è solo la versione più contemporanea di questo tentativo di leggere – a voce alta – quel che la luce scrive di sé e della sua relazione con la terra e le cose. Questa idea rovescia completamente il racconto tradizionale del sistema delle arti, e del modo in cui la fotografia vi si è inserita. La questione della tecnologia ne esce trasformata e ridimensionata. Spesso i discorsi sulla fotografia assumono un accento quasi eroico: se ne parla come di una conquista che ha permesso di fare qualcosa che nessuno prima ha potuto fare, la si dipinge come una pratica tipica della modernità industriale, una rivoluzione assoluta nella storia delle arti legata esclusivamente al progresso tecnico. La fotocamera in questo tipo di discorsi diventa l’incarnazione della superiorità culturale della modernità rispetto al passato e della superiorità dell’essere umano rispetto al cosmo. Il modo in cui tu, invece, parli della macchina e della tecnica fotografica è totalmente diverso. Non c’è mai questa freddezza e non c’è mai l’idea di una novità: la fotocamera è una presenza molto calda, umana, e soprattutto quasi ovvia, come se si trattasse di una compagna di viaggio che da secoli vive accanto all’uomo. Questo probabilmente perché se la fotografia è sempre esistita, ciò che le macchine fotografiche hanno reso possibile non è l’esistenza della fotografia ma un suo particolare modo d’essere. E l’arte fotografica non ha necessariamente per oggetto il nuovo, il moderno, ma è l’esistenza contemporanea del simbolo eterno dell’umanità.
Le tue fotografie comunicano sempre l’impressione di essere state scattate qualche istante prima. Proprio perché la fotografia testimonia questo rapporto ancestrale e astronomico, le immagini che realizzi non cercano mai l’attualità: sembrano eternamente contemporanee, come se fossero state scattate stamattina, come se riuscissero a essere presenti in qualsiasi contesto storico. Tu usi la fotografia per estrarre da ogni cosa una sorta di vita eterna, come se costringessi la nostra esperienza a restare per sempre contemporanea a chi la guarda. È qualcosa di molto liberatorio: la fotografia non deve catturare un momento che è stato e che non si ripeterà più (il ça-a-été di Barthes), ma rendere la realtà eternamente contemporanea. La fotografia impedisce al passato di essere davvero passato, di non esistere più. Mentre scrivo guardo la fotografia di mia figlia: è come se questo momento fosse per sempre presente. Come se la fotografia moltiplicasse il presente, dandogli una sorta di strana, eterna infanzia. Questo accade, credo, perché la luce non invecchia mai: scompare, ma non può invecchiare. Non ha età, è in un’eterna infanzia. E il fotografo, moltiplicando questa luce, moltiplica e diffonde questa infanzia. Mi chiedo come tu faccia. Soprattutto: come scegli i tuoi soggetti? Se il fotografo è colui che addomestica il sole, in base a quali princìpi decide poi di farne uso? Se il fotografo è colui che porta il sole sulla terra e trasforma la nostra esperienza in una sorta di cielo, e ciascuno di noi in una luna, come distribuisce questa luce? Come scegli quale corpo trasformare in luna?
Un grande abbraccio,
Emanuele
Didascalie:
- Audrey, Parigi, 1996 © Paolo Roversi
- Audrey, Parigi, 1996 © Paolo Roversi
- Audrey, Parigi, 1996 © Paolo Roversi
- Guinevere, Parigi, 1996 © Paolo Roversi