Ingranditore  IO SONO IL FOTOGRAFO  Blow-up e la fotografia  di Michelangelo

Pubblicato il : 18/02/2025 10:57:43

Io sono il fotografo. Blow-up e la fotografia, presenta per la prima volta  un approfondimento completo sul film Blow-Up di Michelangelo Antonioni, con alcuni materiali inediti provenienti dall’Archivio Antonioni.
Così, accanto al racconto di Julio Cortázar, Le bave del diavolo, che ispirò il regista, troviamo anche il soggetto integrale firmato da Antonioni stesso.
Accanto ai testi, nel volume sono pubblicate le fotografie originali che il protagonista del film appende alle pareti. Le immagini furono realizzate da Don McCullin.

Quando le riprese del film terminarono, se ne persero le tracce per quasi trent’anni, finché nel 1996 vennero acquistate da un collezionista, Philippe Garner, durante un’asta a Londra. Erano 21.
Blow-Up, campione d’incassi e vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1966, è uno dei capolavori indiscussi della cinematografia e di Antonioni.
 
Questo libro riflette sulle relazioni tra i diversi mezzi espressivi visivi ripercorrendo tutte le tappe che hanno portato alla concezione e realizzazione del film.
Per delineare in modo più autentico la figura del protagonista, fotografo di moda che sta virando i suoi interessi verso la fotografia sociale, e i suoi ambienti lavorativi, Antonioni prese spunto da alcuni fotografi britannici di allora e si servì persino dei loro lavori all’interno del film come nel caso di John Cowan, a cui il protagonista si ispira.
Così, pagina dopo pagina, tra i materiali preparatori del film troviamo anche un questionario per i fotografi di moda della swinging London, una relazione del giornalista Anthony Haden-Guest sul mondo dei fotografi e sulle loro abitudini e, infine, un reportage di Francis Wyndham sui fotografi Brian Duffy, Terence Donovan e David Bailey.
 
Le bave del diavolo di Julio Cortázar, pubblicato per la prima volta nella raccolta Las armas secretas, del 1959: uno dei racconti più emblematici
dello scrittore argentino, che qui tematizza l’analogia tra racconto e fotografia e la loro capacità di catturare “la fugacità in una permanenza”. Michelangelo Antonioni ne rimase profondamente impressionato e decise di trarne liberamente un film.
Blow-Up è frutto di quell’idea.

 






Julio Cortázar

Le bave del diavolo

 

Non si saprà mai come raccontarlo, se in prima persona o in seconda, usando la terza del plurale o inventando continuamente forme che non serviranno a niente. Se si potesse dire: io videro salire la luna, oppure: ci mi duole il fondo degli occhi, e soprattutto così: tu la donna bionda erano le nubi che continuano a correre davanti ai miei tuoi suoi nostri vostri loro visi. Che diavolo. Una volta cominciato a raccontare, se fosse possibile andare a prendere una birra da qualche par-te e che la macchina andasse avanti da sola (perché scrivo a macchina), sarebbe la perfezione. E non è un modo di dire. La perfezione, sì, perché qui il buco che si deve raccontare è anch’esso una macchina (d’altro genere, una Contax I.I.2), e potrebbe anche darsi che una macchina ne sappia a proposito di un’altra macchina più di me, di te, di lei – la donna bionda – e delle nuvole. Ma dello scemo ho soltanto la fortuna, e so che se me ne vado questa Remington resterà pietrificata sopra il tavolo con quell’aspetto di doppia-ente immobili che hanno le cose che si muovono quando non si muovono. Allora devo scrivere. Uno di noi tutti deve scrivere, se tutto ciò deve essere raccontato. Meglio che lo faccia io che sono morto, che sono meno compromesso del resto; io che non vedo altro che le nubi e posso pensare senza distrarmi, scrivere senza distrarmi (ecco, ne passa un’altra con un orlo grigio), e ricordarmi senza distrarmi, io che sono morto (e vivo, non si tratta di inganna-re nessuno, lo si vedrà quando verrà il momento opportuno, perché in qualche modo devo pur procedere e ho cominciato da questa punta, quella posteriore, quella dell’inizio, che dopotutto è la migliore delle punte, quando si vuole raccontare qualcosa)

All’improvviso mi domando perché mai devo raccontarlo, ma se uno cominciasse a domandarsi perché fa tutto quello che fa, se uno si domandasse soltanto perché accetta un invito a cena (adesso passa una colomba e, mi sembra, anche un passero) o perché quando qualcuno ci ha raccontato una storia veramente buona comincia subito una specie di solletico allo stomaco e non si sta più quieti finché non si è entrati nell’ufficio vicino a raccontare ad altri la stessa storia; solo così uno e soddisfatto, è contento e può tornare al suo lavoro. Che io sappia, nessuno ha spiegato il perché di questo, sicché la cosa migliore è piantarla con i pudori e mettersi a raccontare, per-ché dopotutto nessuno si vergogna di respirare o di mettersi le scarpe; sono cose che si fanno, e quando succede qualcosa di strano, quando dentro la scarpa troviamo un ragno o al re-spirare si sente come un vetro rotto, allora bisogna raccontare quello che succede, raccontarlo ai ragazzi dell’ufficio oppure al medico. Ahi, dottore, ogni volta che respiro… Raccontarlo sempre, sempre togliersi quel noioso stuzzichio dallo stomaco.
E già che stiamo per raccontarlo, mettiamo le cose un po’ in ordine, scendiamo le scale di questa casa fino alla domenica 7 di novembre, giusto un mese fa. Si scendono cinque piani e ci si trova nella domenica, con un sole inaspettato, per un novembre di Parigi, con moltissima voglia di andar-sene un po’ in giro, a vedere cose, a fare fotografie (perché eravamo fotografi, sono fotografo). So bene che la cosa più difficile sarà trovare il modo di raccontarlo, e non ho timore di ripetermi. Sara difficile perché nessuno sa chi davvero sta raccontando, se sono io o quello che è capitato, o quello che sto vedendo (nuvole, e a volte una colomba), oppure se semplicemente racconto una verità che è solo la mia verità, e allora non è la verità altro che per il mio stomaco, per questa voglia che ho di uscirmene di corsa e di finirla in qualsiasi modo con questa storia, sia quello che sia.
Raccontiamola dunque adagio, si potrà vedere quel che succede man mano che lo vado raccontando. Se mi sostituiscono, se non so più che cosa dire, se finiscono le nuvole e comincia qualche altra cosa (perché non è possibile andare avanti sempre così, vedendo continuamente nuvole che passano e a volte una colomba), se qualcosa di tutto questo… E dopo il “se” che cosa ci metto, in che modo posso finire correttamente il periodo? Ma se comincio con le domande non racconto più niente; meglio raccontare, forse raccontare è una specie di risposta, almeno per qualcuno che lo legga.
Roberto Michel, franco-cileno, traduttore e fotografo dilettante a tempo perso, uscì dal numero 11 di rue Monsieur-le-Prince la domenica 7 novembre del corrente anno (adesso ne passano due più piccole, con gli orli argentati). Stava lavorando da tre settimane alla traduzione in francese del trattato sulle ricusazioni e i ricorsi di José Norberto Allende, professore all’università di Santiago. È strano che ci sia vento a Parigi, e molto più strano un vento che turbinava alle cantonate e saliva a percuotere le vecchie persiane di legno di là dalle quali stupite signore andavano commentando in diversi modi l’instabilità del tempo in questi ultimi anni. Ma c’era anche il sole, a cavallo del vento e amico dei gatti, per cui niente mi avrebbe impedito di fare un giro lungo le banchine della Senna e scattare qualche foto della Conciergerie e della Sainte-Chapelle. Erano le dieci appena e calcolai che verso le undici avrei avuto buona luce, la migliore luce possi-bile in autunno. Per ammazzare il tempo feci una deviazione fino all’isola Saint-Louis, mi misi a camminare lungo il Quai d’Anjou, guardai per qualche minuto l’hotel Lauzun, mi re-citai dei frammenti di Apollinaire che mi vengono sempre in mente quando passo davanti all’hotel Lauzun (e sì che dovrei ricordarmi di un altro poeta, ma Michel è un ostinato), e quando all’improvviso il vento cessò e il sole diventò almeno il doppio di grandezza (voglio dire più tiepido, ma in realtà è la stessa cosa), mi misi a sedere sul parapetto e mi sentii terribilmente felice nella mattinata domenicale.
Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è quello di scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata precocemente ai fanciulli, perché richiede disciplina, educazione estetica, buon occhio e dita sicure. Non si tratta di mettersi in agguato della menzogna, come qualsiasi reporter, e captare la stupida silhouette del personaggio che esce dal numero 10 di Downing Street, ma in ogni modo quando si va in giro con la macchina fotografica c’è come un dovere di star attenti, di non perdere quel brusco e delizioso riflesso di un raggio di sole su una vecchia pietra, o la corsa trecce al vento di una bambina che torna con una pagnotta o una bottiglia di latte. Michel sapeva che il fotografo subisce una specie di trasformazione della sua personale maniera di vedere le cose in virtù di un’altra maniera che la macchina insidiosamente gli impone (adesso passa una gran nuvola quasi nera), ma non perdeva la fiducia, sapendo che gli bastava uscire senza la Contax per recuperare il tono distratto, la visione senza inquadratura, la luce senza diaframma e senza 1/250. Anche adesso (che parola, adesso, che stupida menzogna) potevo restar seduto sulla spalletta sopra il fiume, guardando passare i barconi rossi e neri, senza che mi venisse in mente di pensare fotograficamente le scene solo, lasciandomi andare nel lasciarsi andare delle cose, correndo immobile con il tempo. E il vento ormai non soffiava più.
Poi proseguii per il Quai de Bourbon fino a raggiungere l’estremità dell’isola, dove l’intima piazzetta (intima perché piccola, non perché sia nascosta, ché anzi si spalanca tutta al fiume e al cielo) mi piace e mi ripiace. Non c’era altro che una coppia, e, si intende, colombi; forse gli stessi, in parte almeno, che passano in questo momento attraverso ciò che sto vedendo. Con un salto mi misi a sedere sulla spalletta e mi lasciai avvolgere e legare dal sole, dandogli il viso, le orecchie, ambedue le mani (i guanti me li misi in tasca). Non avevo voglia di scattare fotografie, e accesi una sigaretta per fare qualcosa; credo che nel momento in cui avvicinavo il fiammifero al tabacco vidi per la prima volta il ragazzino.
Ciò che avevo scambiato per una coppia era piuttosto simile a un bambino con la propria madre, anche se mi rendevo conto nello stesso tempo che non si trattava affatto di un bambino con la propria madre, che si trattava di una coppia nel senso che siamo solti attribuire alle coppie quando le vediamo appoggiate ai parapetti o abbracciate sulle panchine delle piazze.
Siccome non avevo nulla da fare, avevo tempo in abbondanza per domandarmi perché mai quel ragazzetto pareva così nervoso, così simile a un puledro o a un leprotto, ficcandosi le mani nelle tasche, tirandone subito fuori una e poi l’altra, passandosi le dita fra i capelli, cambiando posi-zione continuamente, e soprattutto mi domandavo perché aveva paura, perché non c’erano dubbi a questo proposito, si indovinava in lui, in ogni gesto, una paura soffocata dalla vergogna, un impulso di buttarsi indietro che si avvertiva come se il suo corpo fosse già teso a una fuga precipitosa, trattenendosi solo per un estremo e penoso decoro.
Tutto ciò era così evidente, lì, a cinque metri di distanza – ed eravamo soli a ridosso del parapetto, sulla punta dell’i-sola –, che da principio la paura del ragazzo non mi permise di veder bene la donna bionda. Ripensando adesso alla scena, la vedo molto meglio in quel primo istante in cui le lessi in viso (si era girata di colpo come una banderuola di rame, e gli occhi, gli occhi stavano lì), quando capii vagamente quello che poteva star accadendo al ragazzo e mi dissi che valeva la pena di restare e di osservare (il vento si portava via le parole, o piuttosto i mormorii indistinti). Credo di saper guardare, se qualcosa sono capace di fare, e che ogni guardare trasuda falsità, perché è ciò che ci getta più al di fuori di noi stessi, senza la più piccola garanzia, mentre invece l’odorare (ma Michel si svia facilmente, non si deve lasciarlo declamare a suo capriccio). Ad ogni modo, prevedendone in anticipo la probabile falsificazione, guardare diventa possibile; basta forse scegliere bene fra il guardare e la cosa guardata, spogliare le cose di tanti panni altrui. E naturalmente tutto ciò è piuttosto difficile.
Del ragazzo ricordo l’immagine prima che il vero corpo (si capirà dopo quel che voglio dire), mentre sono sicuro, adesso, che della donna ricordo molto meglio il corpo che l’immagine. Era sottile e snella, due parole ingiuste per dire quello che era, e indossava un cappotto di pelle quasi nero, quasi lungo, quasi bello. Tutto il vento di quella mattina (ora soffiava appena e non faceva freddo) le era passato fra i ca-pelli biondi che ritagliavano il suo viso bianco e oscuro – due parole ingiuste – e lasciava il mondo in piedi e orribilmente solo davanti ai suoi occhi neri, i suoi occhi che cadevano addosso alle cose come due aquile, due salti nel vuoto, due raffiche di fango verde. Non descrivo niente, cerco piuttosto di comprendere. E ho detto due raffiche di fango verde.
Siamo giusti, il ragazzo era vestito abbastanza bene e portava guanti gialli che io avrei giurato fossero di suo fratello maggiore, studente di legge o di scienze sociali; era spassoso vedere le dita dei guanti spuntar fuori dalla tasca della giacca. Per molto tempo non lo vidi in faccia, soltanto un profilo per niente sciocco – uccello atterrito, angelo di fra’ Filippo2, riso col latte – e una schiena di adolescente che vuole dedicarsi allo judo e ha sostenuto un paio di zuffe per una idea o per una sorella. Sui quattordici anni, forse anche sui quindici, lo si indovinava vestito e nutrito dai genitori, ma senza una lira in tasca, costretto a discutere con i compagni prima di decidersi per un caffè, un cognac o un pacchetto di sigarette. Doveva camminare per le vie pensando alle compagne di scuola, o a come sarebbe bello andare al cinema a vedere l’ultimo film, o comprare romanzi o cravatte o bottiglie di liquore con etichette verdi e bianche. Nella sua casa (certamente una casa rispettabile, pranzo a mezzogiorno in punto e paesaggi romantici alle pareti, con un ingresso piuttosto buio e un portaombrelli di mogano subito accanto alla porta) doveva piovere lento il tempo di studiare, di essere la speranza di mamma, di somigliare a papa, di scrivere alla zia di Avignone. Per questo tanta strada, tutto il fiume per lui (ma senza una lira) e la città misteriosa dei quindici anni, con i suoi segni sulle porte, i suoi gatti che fanno sussultare, il cartoccio di patate fritte a trenta franchi, la rivista porno-grafica piegata in quattro, la solitudine come un vuoto nelle tasche, gli incontri felici, il fervore per tante cose incomprese ma illuminate da un amore totale, dalla disponibilità simile al vento e alle vie.
Questa era la biografia del ragazzo e di qualsiasi ragazzo, ma questo lo vedevo adesso isolato, divenuto unico per la presenza della donna bionda che continuava a parlargli. (Mi rincresce insistere, ma sono sfilate or ora due nuvole sfrangiate. Penso che quella mattina non guardai neppure una volta il cielo, perché non appena presentii quello che accadeva al ragazzo e alla donna, non potei far altro che guardarli e attendere, guardarli e…) Riassumendo, il ragazzo era inquieto, e non ci voleva molto per indovinare quello che era successo pochi minuti prima, al mas-simo mezz’ora prima. Il ragazzo si era spinto fino all’estremità dell’isola: vede la donna e la trova meravigliosa. La donna non aspettava altro perché era lì appunto per aspettare cose del genere, o forse il ragazzo arrivò prima e lei lo vide da una finestra o da un’automobile e gli andò incontro, provocando il dialogo con qualunque pretesto, sicura fin dal primo momento che lui avrebbe avuto paura e voglia di fuggire, ma che naturalmente sarebbe rimasto, arrogante e accigliato, fingendosi un veterano, esperto nei piaceri dell’avventura. Il resto era facile perché stava svolgendosi a cinque metri di distanza da me e chiunque sarebbe stato capace di misurare le tappe del gioco, la schermaglia irrisoria; il suo maggiore incanto non era il suo svolgersi, bensì la previsione dell’esito. Il ragazzo avrebbe finito con l’allegare un pretesto qualsiasi, un appuntamento, un incarico, e se ne sarebbe andato vergognoso e vacillante, facendo ogni sforzo per camminare disinvolto, nudo sotto lo sguardo ironico che lo avrebbe seguito fino alla fine. Oppure sarebbe rimasto, affascinato o semplice-mente incapace di prendere l’iniziativa, e la donna avrebbe cominciato ad accarezzargli il viso, a scompigliargli i capelli, parlandogli senza voce ormai, e all’improvviso lo avrebbe preso per un braccio per portarselo via, a meno che lui, con un tremore forse già permeato dal desiderio, dal pericolo dell’avventura, non osasse passarle un braccio attorno alla vita e baciarla. Tutto ciò poteva accadere, ma non accadeva ancora, e Michel perversamente aspettava, seduto sulla spalletta, preparando quasi senza rendersene canto la macchina fotografica per scattare una foto pittoresca in un angolo dell’isola con una coppia niente affatto comune che si sta parlando e guardando.
Era curioso che la scena (il nulla, quasi: due che stanno lì, disegualmente giovani) avesse come un’aria inquietante. Pensai che questo ce lo mettevo io, e che la mia foto, se l’avessi scattata, avrebbe restituito le cose alla loro sciocca verità. Mi sarebbe piaciuto sapere che cosa pensava l’uomo dal cappello grigio seduto al volante dell’automobile ferma sul molo che conduce alla passerella, e che leggeva il giornale o dormiva. Lo avevo appena scoperto, perché la gente dentro una macchina ferma quasi scompare, si perde in quella squallida gabbia privata della bellezza che le danno il movimento e il pericolo. Eppure l’automobile era stata lì tutto il tempo, formando parte (o deformando quella parte) dell’isola. Una macchina: come dire un fanale dell’illumina-zione pubblica, una panchina della piazza. Mai come il vento, la luce del sole, quelle materie sempre nuove per la pelle e per gli occhi, o anche come il ragazzo e la donna, unici, messi lì per alterare l’isola, per farmela apparire differente. Insomma, poteva succedere anche che l’uomo del giornale stesse attento a quel che accadeva e sentisse come me quel retrogusto maligno d’ogni aspettativa. La donna adesso si era dolcemente voltata in modo da stringere il ragazzo fra sé e il parapetto, li vedevo quasi di profilo e lui era più alto, non molto più alto di lei, ma tuttavia lei lo soverchiava, sembrava come librarsi su di lui (il suo ridere, improvvisamente, uno staffile di piume), schiacciandolo soltanto con lo star lì, sor-ridere, muovere una mano nell’aria. Perché attendere anco-ra? Con un diaframma sedici, un’inquadratura che escludesse l’orribile automobile nera, ma comprendesse quell’albero, necessario per rompere uno spazio troppo grigio…
Alzai la macchina, finsi di studiare una messa a fuoco che non li includeva, e rimasi in agguato, sicuro di cogliere finalmente il gesto rivelatore, l’espressione che riassume tutto, la vita a cui il movimento dà ritmo ma che un’immagine rigida distrugge frantumando il tempo, se non si afferra l’impercettibile frazione essenziale. Non dovetti aspettare molto. La donna seguitava nel suo piano di avvincere dolcemente il ragazzo, di togliergli fibra a fibra i suoi ultimi resti di libertà, in una lentissima tortura deliziosa. Immaginai gli esiti possibili (adesso spunta una piccola nuvola spugnosa, quasi sola nel cielo), previdi l’arrivo alla casa (probabilmente un pianoterra, che lei avrebbe riempito di grandi cuscini e di gatti) e sospettai la tremenda paura del ragazzo e la sua decisione disperata di nasconderla e di lasciarsi trascinare fingendo che niente di tutto quello gli riusciva nuovo. Chiudendo gli occhi, se veramente li chiusi, misi a fuoco la scena, i baci scherzosi, la donna che respinge dolcemente le mani che tentano di spogliarla come nei romanzi, su un letto coperto forse da una trapunta lilla, e che costringe invece lui a lasciarsi togliere gli abiti, madre e figlio, veramente, sotto una luce gialla di globo elettrico, e tutto sarebbe finito come sempre forse, o forse tutto sarebbe andato in altro modo, e l’iniziazione dell’adolescente si sarebbe limitata, non avrebbe potuto far altro che limitarsi a un lungo proemio, in cui le goffaggini, le carezze esasperanti, la corsa delle mani si risolvessero chissà in che, in un piacere solitario e individuale, in un petulante diniego mescolato all’arte di stancare e di sconcertare tanta innocenza offesa. Poteva andare così, poteva benissimo andare così; quella donna non cercava nel ragazzo un amante, e insieme se ne impadroniva per uno scopo impossibile da intendere senza immaginarlo come un gioco crudele, desiderio di desiderare senza soddisfazione, di eccitarsi per qualcun altro, qualcuno che non poteva assolutamente essere quel ragazzo. Michel è colpevole di letteratura, di architetture irreali. Niente gli piace di più dell’immaginare eccezioni, individui fuori della specie, mostri non sempre ripugnanti. Ma quella donna invitava all’invenzione, dando forse le chiavi sufficienti per scoprire la verità. Prima che se ne andasse, e ora che poteva già nutrire il mio ricordo per molti giorni, giacché sono propenso alla ruminazione, decisi di non perdere nep-pure un minuto di più. Feci entrare tutto nel mirino (con l’albero, la spalletta, il sole delle undici) e scattai la foto. Nello stesso istante capivo che i due se n’erano resi conto e che mi stavano guardando, il ragazzo sorpreso e come interrogante, ma la donna irritata, risolutamente ostili il suo corpo e il suo viso che si sapevano rubati, ignominiosamente prigionieri in una piccola immagine chimica.
Lo potrei riferire in ogni particolare, ma non ne vale la pena. La donna parlò dicendo che nessuno aveva il diritto di scattare una foto senza permesso, ed esigette la consegna del rotolo della pellicola. Il tutto con voce secca e chiara, di buon accento parigino, che andava crescendo di colore e di tono ad ogni frase. Da parte mia m’importava ben poco darle o no il rotolo della pellicola, ma chiunque mi conosce sa che le cose bisogna chiedermele con le buone. Il risultato è che mi limitai a esprimere l’opinione che la fotografia non solo non è vietata nei luoghi pubblici, ma che anzi può con-tare sul più grande favore ufficiale e privato. E mentre glielo dicevo me la spassavo dentro di me vedendo come il ragazzo andava restando indietro – soltanto col non muoversi – e di colpo (sembrava quasi incredibile) si voltava e partiva di corsa, credendo di camminare, il poverino, ma in realtà dandosela a gambe al galoppo, passando a fianco dell’automobile, perdendosi come un filo di ragnatela nell’aria della mattina.
Ma le ragnatele si chiamano anche bave del diavolo, e Michel dovette far fronte a imprecazioni particolareggiate, sentirsi chiamare rompiscatole e imbecille, mentre deliberatamente si impegnava a sorridere e a respingere, con semplici cenni del capo, tanti gratuiti attributi. Cominciavo a stancarmene, quando udii sbattere la porta di un’auto. L’uomo dal cappello grigio era lì che ci guardava. Solamente allora compresi che anch’egli aveva una parte nella commedia.
Cominciò a camminare verso di noi, tenendo in una mano il giornale che aveva finto di leggere. Ciò di cui meglio mi ricordo è la smorfia che gli torceva la bocca e gli riempiva la faccia di rughe, qualcosa cambiava di luogo e di forma perché la bocca gli tremava e la smorfia andava da una parte all’altra delle labbra come una cosa indipendente e viva, estranea alla volontà. Ma tutto il resto era fisso, pagliaccio infarinato o uomo senza sangue, con la pelle spenta e arida, gli occhi sprofondati in dentro e i buchi del naso neri e visibili, neri più delle sopracciglia o dei capelli o della cravatta nera. Camminava con precauzione, come se il selciato gli facesse male ai piedi; gli vidi le scarpe di vernice, con la suola cosi sottile che doveva accusare ogni scabrosità della via. Non so perché ero sceso dalla spalletta, non so bene perché decisi di non dargli la fotografia, di respingere quella richiesta in cui indovinavo paura e viltà. Il pagliaccio e la donna si consultavano in silenzio: formavamo un perfetto triangolo insopportabile, qualcosa che si doveva rompere con uno schiocco. Mi misi a ridergli in faccia e m’incamminai, suppongo a passi alquanto più lenti che il ragazzo. All’altezza delle prime case, dalla parte della passerella di ferro, mi voltai a guardarli. Non si muovevano, ma l’uomo aveva lasciato cadere il giornale; mi parve che la donna appoggiata di spalle al parapetto, muovesse lentamente le mani sulla pietra, con il classico e assurdo gesto del perseguitato che cerca una via d’uscita.
Ciò che segue è accaduto qui, in questo stesso momento si può dire, in una stanza di un quinto piano. Vari giorni trascorsero prima che Michel sviluppasse le fotografie della domenica; le sue istantanee della Conciergerie e della Sainte-Chapelle erano come dovevano essere. Trovò due o tre in-quadrature di prova già dimenticate, un tentativo non riuscito di captare un gatto incredibilmente appollaiato sulla cima di un orinatoio pubblico, e anche la foto della donna bionda e dell’adolescente. Il negativo era così buono che preparò un ingrandimento; l’ingrandimento venne così bene che ne fece un altro molto più grande, quasi come un cartellone pubblicitario. Non gli venne in mente (se lo domanda adesso e se lo ridomanda) che solo le istantanee della Conciergerie meritavano tanta fatica. Di tutta la serie, l’unica istantanea che lo interessava era quella dell’estremità dell’isola; attaccò l’ingrandimento a una parete della stanza e il primo giorno rimase un po’ di tempo a osservarlo e a ricordare, in quell’operazione comparativa e malinconica del ricordo davanti alla realtà perduta; ricordo pietrificato, come ogni fotografia, in cui non mancava nulla, nemmeno e soprattutto il nulla, che era in verità ciò che aveva fissato la scena. C’era la donna, c’era il ragazzo, l’albero rigido sopra le loro teste, il cielo immobile come le pietre del parapetto, nuvole e pietre confuse in una sola materia inseparabile (adesso ne passa una con gli orli affilati, corre come in un’avanguardia di tormenta). I due primi giorni accettai quello che avevo fatto, dalla foto in sé fino all’ingrandimento sulla parete, e non mi domandai nep-pure perché interrompevo ad ogni momento la traduzione del trattato di José Norberto Allende per ritrovare il viso del-la donna, le macchie oscure sulla spalletta. La prima sorpresa fu stupida; non mi era mai capitato di pensare che quando guardiamo una fotografia di fronte, gli occhi ripetono esattamente la visione e la posizione dell’obiettivo; sono cose queste che si danno per scontate e nessuno si sofferma a ripensarle. Dalla mia sedia, con la macchina per scrivere da-vanti, fissavo la foto lì a tre metri di distanza; e allora mi venne in mente che mi ero messo esattamente nel punto di mira dell’obiettivo. Così andava bene; senza dubbio era il modo migliore per apprezzare una foto, anche se la visione in diagonale poteva avere i suoi incanti e magari anche le sue sor-prese. Di tanto in tanto, per esempio quando non trovavo il modo di rendere in buon francese quello che José NorbertoAllende diceva in così buon spagnolo, alzavo gli occhi e guardavo la foto; ora mi attirava la donna, ora il ragazzo, ora il selciato su cui una foglia secca si era ammirevolmente situata per valorizzare un settore laterale. Allora riposavo un istante dal mio lavoro e rientravo una volta di più in quella mattina che permeava la fotografia, ricordavo ironicamente l’immagine collerica della donna che esigeva la consegna del-la pellicola, la fuga ridicola e patetica del ragazzo, l’entrata in scena dell’uomo dalla faccia bianca. In fondo ero soddisfatto di me stesso; la mia uscita di scena non era stata troppo brillante, perché se i francesi hanno avuto in sorte il dono del-la battuta pronta, non vedevo bene perché avevo preferito andarmene senza una compiuta dimostrazione di privilegi, prerogative e diritti civili. Ma la cosa importante, l’unica veramente importante era l’aver aiutato il ragazzo a scappare in tempo (questo nel caso che le mie teorie fossero esatte, il che non era sufficientemente dimostrato, ma il semplice fatto della fuga sembrava provarlo). Con il mio intervento di ficcanaso gli avevo dato l’opportunità di utilizzare finalmente la sua paura per qualcosa di positivo; adesso doveva sentirsi pentito, diminuito, scarsamente virile. Ma questo era meglio, piuttosto che la compagnia di una donna capace di guardare come quella lo aveva guardato all’isola. Michel è puritano, a momenti, crede che non si debba corrompere con la forza. In fondo, quella foto era stata una buona azione.
Non come buona azione però la guardavo nelle frequenti pause del mio lavoro. In quel momento non sapevo perché la guardavo, perché avevo attaccato l’ingrandimento alla parete; forse accade così con tutti gli atti fatali, questa è forse la condizione del loro compiersi. Credo che il tremito quasi furtivo delle foglie dell’albero non mi allarmò, che continuai una frase incominciata e la terminai con pieno rispetto della sintassi. Le abitudini sono come grandi erbari, in ultima ana-lisi un ingrandimento di ottanta per sessanta somiglia a uno schermo cinematografico, sul quale all’estremità di un’isola una donna parla con un ragazzo e un albero agita qualche foglia secca sopra le loro teste.
Ma le mani erano davvero troppo. Avevo appena finito di scrivere: Donc, la seconde clé réside dans la nature intrinsèque des difficultés que les sociétés – e vidi che la mano della donna cominciava a chiudersi adagio, dito per dito. Di me non rimase nulla, una frase in francese che non sarà finita mai, una macchina per scrivere che cade a terra, una seggiola che scricchiola e vacilla una nebbia. Il ragazzo aveva abbassato la testa, come i pugili quando sono allo stremo e aspettano solo il colpo di grazia; si era alzato il bavero del cappotto, pareva più che mai un prigioniero, la perfetta vittima che dà una mano alla catastrofe. La donna adesso gli parlava all’orecchio, e la mano si apriva ancora per posarsi sulla guancia di lui, accarezzandola e accarezzandola, bruciandola senza fretta. Il ragazzo era meno spaventato che diffidente, una o due volte lanciò uno sguardo furtivo al di sopra della spalla della donna, e lei continuava a parlare, spiegando qualcosa che lo faceva guardare ad ogni momento verso il punto in cui Michel sapeva benissimo trovarsi la macchina con l’uomo dal cappello grigio, accuratamente escluso dalla fotografia, ma che in ogni modo si rifletteva negli occhi del ragazzo e (come dubitarne adesso) nelle parole della donna, nelle mani della donna, nella presenza vicaria della donna. Quando vidi venire l’uomo, fermarsi accanto a loro e fissarli, le mani nelle tasche e con un’aria fra tediata ed esigente, padrone che sta per fischiare ai propri cani dopo averli lasciati divertire un poco sulla piazza, compresi, se quello era comprendere, quel che doveva succedere, quello che doveva essere successo, quello che avrebbe dovuto succedere in quel momento, fra quella gente, in quel punto dove ero arrivato io ad altera-re un ordine, innocentemente immischiato in ciò che non era accaduto, ma che adesso sarebbe accaduto, che adesso stava per compiersi. E quello che allora avevo immaginato era molto meno orribile della realtà, quella donna che non era lì per sé, non accarezzava né proponeva né incoraggiava per il proprio piacere, per portarsi via l’angelo spettinato e giocare con il terrore e con la grazia desiderante di lui. Il vero padrone aspettava, sorridendo petulante, sicuro ormai dell’opera; non era il primo che spediva in avanguardia una donna per farsi portare i prigionieri ammanettati con i fiori. Il resto sarebbe stato molto semplice, la macchina, una casa qualsiasi, le bevande, le immagini eccitanti, le lacrime troppo tardi, il risveglio all’inferno. E io non potevo farci nulla, questa volta non potevo farci assolutamente nulla. La mia forza era stata una fotografia, quella lì, dove si vendicavano di me mostrandomi senza pudore quello che stava per accadere. La foto era stata scattata, il tempo era passato; eravamo così lontani gli uni dagli altri, la corruzione certamente era stata consumata, le lacrime versate, e il resto congettura e tristezza. Improvvisamente, l’ordine si invertiva, loro erano vivi, si muovevano, decidevano ed erano decisi, andavano verso il loro futuro; e da questo lato, prigioniero di un altro tempo, di una stanza e un quinto piano, dell’ignorare chi fossero quella donna e quell’uomo e quel fanciullo, di essere soltanto la lente del mio obiettivo, qualcosa di rigido, incapace d’intervento. Mi gettavano in faccia la più orrenda beffa, quella di decidere di fronte alla mia impotenza, il ragazzo che guardava una volta ancora il pagliaccio infarinato, e io che capivo che stava per accettare, che la proposta conteneva denaro o inganno, ma che io non potevo gridargli di fuggire, o semplicemente rendergli di nuovo più facile la fuga con un’altra fotografia, un piccolo e quasi umile intervento che facesse crollare l’impalcatura di bava e di profumo. Tutto stava per risolversi lì, in quell’istante; c’era come un immenso silenzio che non aveva nulla a che vedere col silenzio fisico. Quella si stava montando, si stava componendo. Credo d’aver gridato, d’aver gridato terribilmente, e d’aver saputo in quell’attimo stesso che cominciavo ad avvicinarmi, dieci centimetri, un passo, un altro passo, l’albero muoveva lentamente i suoi rami in primo piano, una macchia del parapetto veniva in primo piano, la faccia della donna, rivolta verso di me come sorpresa, stava ingrandendosi, e allora mi spostai un poco, voglio dire che la macchina si spostò lentamente, e senza perdere di vista la donna cominciò ad avvicinarsi all’uomo che mi stava guardando con i buchi neri che aveva al posto degli occhi, mi guardava fra il sorpreso e l’iroso, volendo inchiodarmi nell’aria, e in quell’istante riuscii a vedere una specie di immenso uccello sfuocato che passava d’un sol volo davanti all’immagine, e mi appoggiai alla parete della mia stanza, e fui felice perché il ragazzo era appena fuggito, lo vedevo mentre correva, di nuovo a fuoco, mentre fuggiva con tutti i capelli al vento, imparando finalmente a volare sull’isola, ad arrivare alla passerella, a tornare in citta. Per la seconda volta gli sfuggiva, per la seconda volta io lo aiutavo a salvarsi, lo restituivo al suo precario paradiso. Ansando mi fermai davanti a loro; non c’era bisogno di procedere oltre, il gioco era giocato. Della donna si vedevano solamente una spalla e una parte dei capelli, brutalmente tagliati dall’inquadratura dell’immagine; ma di fronte c’era l’uomo, semiaperta la bocca in cui vedevo tremare una lingua nera, e alzava adagio le mani portandole in primo piano, perfettamente a fuoco ancora per un istante, trasformato poi tutto lui in una massa confusa che cancellava l’isola, l’albero, e io chiusi gli occhi e non volli guardare più, e mi coprii il viso e scoppiai a piangere, come un idiota. giorni, in tutti questi minuti innumerevoli. Quello che rima-ne da dire è sempre una nuvola, due nuvole, o lunghe ore di cielo perfettamente limpido, rettangolo purissimo appeso con gli spilli sulla parete della mia stanza. Fu quello che vidi riaprendo gli occhi e asciugandomeli con le dita: il cielo limpido, e quindi una nuvola che entrava da sinistra, portava a spasso lentamente la sua grazia e si perdeva verso destra. E poi un’altra, e a volte invece tutto diventa grigio, tutto è una nuvola enorme, e improvvisamente crepitano gli spruzzi della pioggia, per un lungo momento si vede piovere sull’immagine, come un pianto a rovescio, e a poco a poco il quadro si rischiara, forse vien fuori il sole, e di nuovo entrano le nuvole, a due, a tre per volta. E i colombi, a volte, e anche qualche passerotto.

2. Filippo Luigi (1406 ca.-1469)?

1. “Babas del diablo” indica in spagnolo le fila lasciate dal ragno.


Didascalie:
Foto di scena del film Blow-up ©Everett Collection
Foto di scena del film Blow-up ©Everett Collection

Condividi