IL MIO VIAGGIO CONTINUO. Intervista con Sebastião Salgado
Pubblicato il : 29/05/2025 13:59:23
Sebastião Salgado ci ha lasciati da pochi giorni, all'età di 81 anni.
In questo numero di Tank, una conversazione rimasta finora inedita con Alessandra Mauro, avvenuta nei primi del Duemila, in occasione della presentazione a Milano della multivisione del suo lavoro più recente all'epoca, In cammino, e per parlare del suo bellissimo libro Terra.
Un omaggio a lui, al suo percorso, alla profondità del suo sguardo inconfondibile.
Salgado arriva all'incontro di Milano di buon umore, sorridente e sereno. Il suo aspetto è cambiato: ha il cranio rasato ed è senza baffi - "avevo bisogno di sentirmi un uomo nuovo e un giorno di colpo, ero a Jakarta e dovevo cominciare un nuovo reportage, ho deciso di radermi per vedermi diverso". È attento e disponibile a raccontare del suo lavoro e a raccontarsi. Ci parla della sua formazione di economista, delle sue radici brasiliane, dei suoi progetti fotografici che, ormai tradizionalmente, lo impegnano per molti anni con un grande sforzo produttivo ed organizzativo ma anche, sempre, con grandi risultati.
AM: È ormai prassi cominciare le conversazioni con te chiedendoti quanto la tua formazione di economista, attento ai problemi sociali, abbia influito sul tuo lavoro di fotografo.
SS: Penso che mi abbia influenzato molto. Ma non solo la formazione di economista. Credo che tutto ciò che ho vissuto nella mia vita mi abbia influenzato. In realtà, credo che ancora oggi fotografo portando dietro tutto il bagaglio di ciò che ho vissuto. Il mio periodo di formazione universitaria, la mia esperienza lavorativa post-universitaria: tutto è stato importante. Ma non è solo una questione di studi. Alla base dei miei desideri e della mia capacità di lavorare come economista, esiste una grande motivazione sociale. Prima di tutto vengo dal Brasile, un paese di forti contrasti e di grandi lotte anche sociali; ho militato in molte organizzazioni di sinistra, ho fatto attività politica nel mio paese: tutto ciò mi ha portato, allora, a voler fare economia, ad aiutare a trasformare un poco la realtà in cui vivevo. Sono entrato nell'Università e, una volta terminati gli studi, ho cominciato a lavorare come economista. Poi, a un certo punto, ho scoperto la fotografia. Da quel momento in poi, ho cominciato a capire che con la fotografia si poteva comunicare in un altro modo, più facilmente. Tutto ciò da cui venivo – la mia formazione sociale, gli studi fatti, gli approfondimenti di sociologia, antropologia, di geopolitica, tutto ciò che faceva parte della mia formazione, insomma, è stato come travasato, con i rispettivi strumenti, nella fotografia.
La fotografia per me è la continuità. Il tipo di immagini che realizzo, dall'inizio fino ad oggi, è più o meno la stessa. Faccio versioni differenti della stessa storia. In Terra, ad esempio, ci sono immagini del 1980, e poi del 1982, fino al 1986. Allora non ero consapevole che avrei preparato questo libro, ma il libro si è formato da solo. Come le altre cose che faccio, è la materializzazione di un comportamento di vita.
Ma allora le tue foto sono sempre le stesse?
No, non sono sempre le stesse. Sono sempre storie sociali. Sono versioni differenti, capitoli diversi della stessa storia. Una storia che, in fondo, è la storia della nostra evoluzione. L'evoluzione dell'umanità vista nel momento storico che noi stiamo vivendo... È questo ciò che mi interessa di più: vivere dentro l'onda di questo momento storico e testimoniarlo.
Nelle tue foto è sempre molto forte il legame tra le persone ritratte e l'ambiente.
Certamente. È ciò di cui sto parlando. Tutto è legato in modo molto profondo. L'uomo è parte dell'ambiente in cui vive, è parte della comunità e questo deve apparire nelle foto.
A volte la gente mi chiede come mai io fotografi sempre i miserabili... Ma i soggetti delle mie immagini non sono i miserabili, sono semplicemente le persone che hanno meno mezzi materiali a disposizione. Si tratta piuttosto di persone con una loro dignità, una profonda nobiltà. Gente che fa parte della propria comunità e in genere continua a sperare in modo molto intenso e determinato di poter costruire qualcosa nella sua vita. Un ambiente migliore, una vita migliore per il gruppo sociale di cui fa parte. Tutto questo deve essere colto nella fotografia.
Ogni reportage che fai è la storia "particolare", l'episodio specifico di quegli uomini che hai ritratto, ma nello stesso tempo, sembra acquisire valore proprio perché si inserisce all'interno di un progetto globale.
Proprio la visione planetaria è la forza del progetto. Se un giovane fotografo, oggi, mi domandasse cosa dovrebbe fare per diventare un fotogiornalista, io risponderei – come poi di fatto rispondo a chi me lo domanda – di fermarsi, di non fotografare per un po' e invece studiare sociologia, antropologia, economia. Quando si riesce a comprendere il momento storico che si sta vivendo, si riesce a saldare le proprie fotografie alla realtà, alla storia. Solo a questo punto, le fotografie non hanno limite. Purtroppo, non tutti i fotografi hanno quella ampiezza di comprensione necessaria per capire e vivere anche intellettualmente cosa sta accadendo nel mondo. Delle volte un’immagine, anche la più interessante, non si lega a niente, ma sembra solo il frutto di un riflesso momentaneo: un'emozione per un fatto che, in modo eclatante, è esploso all'attenzione generale. Ogni lavoro fotografico, ogni reportage deve poter essere visto all'interno di un processo. Un reportage sulla Romania, ad esempio, deve essere letto all'interno di un modo di produzione dei paesi dell'Est che è arrivato alla fine, ormai saturo; capire qual è il momento politico e in che modo si è arrivati alla disintegrazione completa di determinate dinamiche politiche ed economiche, ecc.... Se si riesce a capire questo, allora si può viaggiare dentro questo sistema.
Parlaci di come è nato il libro Terra. È evidente una profonda sintonia tra le persone che vi hanno lavorato e una serie di rimandi tra te, Chico Buarque che ha scritto le canzoni del CD e Saramago che ha firmato l'introduzione del libro.
Terra è profondamente legato al progetto sulle migrazioni delle popolazioni. L'idea nasce dal Movimento dei Senza Terra che esiste in Brasile dal 1984-85 e che, in un certo senso, da circa 40 anni lotta per chiedere terra da lavorare. Negli anni, un contributo e una spinta a questa lotta sono stati dati senza dubbio da Giovanni XXIII e dalla Chiesa di base con la teologia della liberazione. La richiesta dei Senza Terra brasiliani non è solo di avere la terra da coltivare ma di mettere in moto un meccanismo economico virtuoso molto più vasto. Non ci si aspetta che la terra venga assegnata ma si cerca di prenderla e di inserirsi in un'economia non feudale ma legata al resto del mondo. La Fazenda Giacometti, ad esempio, è un enorme latifondo di 830.000 ettari teatro di un'azione dei Senza Terra dove i contadini cercano di entrare e che potrebbe dare da vivere a un numero incredibile di famiglie, creando al contempo un importante indotto economico. Ma il Brasile deve ancora scontare una serie di errori madornali fatti in passato, come la cessione al miliardario e imprenditore Ludwig di 30.000 ettari di terra per realizzare quello che poi si è rivelato un progetto veramente fallimentare, fondato sulla monocoltura della canna da zucchero per estrarre l'alcool combustibile. In un paese come il Brasile –settima potenza economica e territorio pieno di enormi potenzialità – l'agricoltura vive ancora in un sistema feudale. Il problema della struttura agraria è quindi di primaria importanza.
Parliamo ora del libro. Si tratta di un misto di diverse personalità e di diverse volontà: la volontà delle quattro persone che lo hanno creato, io, Chico Buarque, José Saramago e Lélia Wanick, la persona per me più importante. È sua, ad esempio, l'idea di mettere in copertina il ritratto di una bambina e in controcopertina quello di una donna anziana. Come dire che dentro queste foto c'è tutta la storia della vita della bambina e che, come un viaggio, il libro la porterà ad essere così un giorno. È una vita dura, "severa", come quella descritta dal poeta brasiliano João Cabral de Melo Neto di cui nel testo citiamo una frase, tratta da un suo poema “Morte e Vida Severina”. La vita nei campi, la morte nei campi, l'espulsione dalle campagne, la città: questo è il ciclo. Ma c'è anche la lotta per la terra, e questo chiude il circolo.
Ricordo le conversazioni con José Saramago, seduti nella cucina della sua casa, con le foto sparse sul tavolo. Le abbiamo guardate insieme e poi gli ho chiesto se volesse realizzare il testo e lui ha accettato. Poi ho mostrato le fotografie a Chico Buarque, e contemporaneamente è arrivata la musica che Milton Nascimento aveva scritto su questo tema. Mancavano le parole ma, sentita la musica e viste le foto, Chico le ha trovate in perfetta sintonia e in un solo giorno ha scritto il testo. Poi mi ha telefonato chiedendomi quale avrebbe potuto essere il titolo della canzone. Ne abbiamo parlato tutti insieme e con Lélia abbiamo concordato che Levantado do Chão – Sollevato da terra – sarebbe stato il titolo migliore. Ora, Levantado do Chão è anche il titolo di un romanzo di Saramago (tradotto in italiano con Una terra chiamata Alentejo) in cui si affrontano i temi legati alla terra, in questo caso l'Alentejo portoghese. Ognuno di noi quattro è entrato profondamente in questa storia, con un processo creativo che ha prodotto un'armonia totale.
Dopo l'uscita del libro Terra, con la foto della bambina in copertina, alcuni giornalisti hanno chiamato chiedendo di avere maggiori informazioni sul "fotografo dell'infanzia".
È interessante questa costatazione. Nella proiezione-multivisione che ho messo a punto e che accoglie parte del mio lavoro più recente, quello sui movimenti di popolazione nel mondo, c'è una serie di circa 70 ritratti. Il ritratto in effetti è una forma che ho sempre molto amato e frequentato: dai pescatori della Tonnara, ai minatori brasiliani... Ma in questa mia scelta, la maggior parte di ritratti è di bambini. La spiegazione è semplice. Ero in Mozambico, cercavo di lavorare ma un gruppo di bambini mi girava attorno, divertiti e incuriositi. A un certo punto, ho proposto loro un patto: uno alla volta, ognuno, si sarebbe seduto di fronte a me, io gli avrei fatto un ritratto, uno solo, poi tutti sarebbero andati via per lasciarmi lavorare. Così, mi sono seduto su una cassa e di fronte a me si sono sistemati i bambini in fila: cinque minuti per trenta ritratti. Ho usato questo metodo molte altre volte e quando poi, alla fine del viaggio, sono tornato a casa e ho cominciato la selezione delle fotografie, mi sono accorto che questi ritratti erano così forti che non li ho eliminati. Erano, sono, ritratti molto intensi come la loro storia. E sono, in effetti, la loro storia. Così, ho pensato di accostare una grande sequenza di ritratti di bambini: dal Brasile al Vietnam, dal Ruanda al Mozambico, al Sudan. La sequenza è molto forte e, evidentemente, colpisce il pubblico.
Un bravo ritrattista riesce a trasmettere nel ritratto il profondo legame tra lil personaggio e il suo ambiente...
Ogni volta che lavoro su una storia, trascorro del tempo a contatto con l'ambiente che voglio fotografare; lo vivo, imparo a conoscerlo e insieme a conoscere anche le persone. Non ho mai messo in posa nessuno per i miei ritratti. Nella fila dei bambini in Mozambico di cui ti ho parlato, nessuno era in posa ma ognuno si sedeva come più voleva. Ognuno ha fatto ciò che ha voluto: qualcuno ha pianto, qualcuno ha riso, qualcuno ha deciso di fare una smorfia ma io non sono mai intervenuto. Così si riesce a portar fuori la vita della gente e trasmetterla.
Lavori sempre, con i tuoi progetti, muovendoti in una dimensione globale, dove ogni reportage, ogni argomento, assume valore solo se saldato agli altri. Per quanto riguarda Terra colpisce la portata mondiale dell'iniziativa. Siete riusciti a far aprire in tutto il mondo la mostra in 5000 posti diversi.
L'impatto comunicativo è stato enorme e ha oltrepassato l'ambito delle mostre fotografiche. È stato un grande lavoro di comunicazione ed è interessante come questo argomento, tipicamente brasiliano, sia riuscito a diventare veramente internazionale. Soprattutto Lélia ha gestito il coordinamento della comunicazione. Quando un libro di fotografia ha successo in questo modo, riesce veramente ad arrivare in tutto il mondo, a superare l'universo della fotografia.
Perché, in fondo, cos'è la fotografia? Un nulla, un duecentocinquantesimo di secondo. Ma se si prendono 250 di questi 250esimi di secondo si ottiene un secondo e si ottiene la storia completa di ciò che si è visto e si ottiene anche la possibilità di raccontare la storia in un modo molto interessante. La fotografia ti racconta la storia di ciò che stai vivendo, di ciò che hai potuto analizzare con il tuo modo di percepire la realtà, il tuo taglio originale, con la tua estetica che si è formata attraverso il tuo universo visivo. Questa è la ricchezza profonda della fotografia a patto che si possa coniugare sempre con una motivazione profonda, con una comprensione generale dei meccanismi socioeconomici che regolano il mondo e in cui viviamo. Questa è la miscela che deve ottenersi con il fotogiornalismo e penso sia il mio caso.
Terra è anche un'esperienza tipicamente brasiliana. Che rapporto ha con le radici del tuo paese? Per te che vivi in Francia da molti anni e che costantemente, per vocazione e per lavoro, viaggi nel modo intero, ha un senso dire ancora "sono brasiliano"?
Il legame con il mio paese è veramente molto profondo. Io fotografo come il mio paese mi ha insegnato a guardare. Ad esempio, io fotografo moltissimo in controluce. In qualsiasi situazione mi trovo, se capisco che in controluce potrei ottenere un effetto maggiore, non esito un istante. E questa è veramente un'eredità brasiliana. A casa mia, quando ero piccolo, per otto mesi l'anno vivevamo la terribile siccità, con un sole abbagliante da spaccare le pietre. Quella luce ha profondamente condizionato il mio modo di vedere. Spesso da noi, come modo di dire, salutandoci si diceva come augurio ed esortazione "vai nell'ombra", come dire "Dio ti benedica": il sole era così forte che tutti cercavano di proteggersi e di vivere nell'ombra e il mondo intero si vedeva controluce. Quando nella mia infanzia osservavo mio padre tornare a casa, la sua immagine mi appariva in controluce: procedeva nell'ombra per ripararsi dalla luce abbagliante, con il suo cappello e senza dubbio quell'immagine mi ha condizionato. In quella che forse potremmo chiamare "estetica" – che è poi il mio modo di vedere – c'è ancora molto il riflesso della mia esperienza da piccolo. Per questo, per me è facile fotografare in questo modo perché così ho imparato, nell'ombra, a conoscere la mia realtà. Fa parte del mio modo di vedere, come il bianco e nero.
Ma anche la pioggia mi ha influenzato. Nel mio paese, ogni anno, dopo la siccità e il caldo arrivava la stagione delle piogge. E questo significava vivere per 3 o 4 mesi con una pioggia incessante, a torrenti. In quei mesi tutto appariva bianco o nero.
Ricordo certi cieli con quelle nuvole che, da bianche, aumentavano gradualmente di densità passando nel grigio acceso fino al nero più profondo. Ricordo i temporali quando, pieno di paura, mi stringevo a mia madre. Quelle stesse nuvole pesanti si ritrovano spesso nelle mie fotografie, così come il cielo delle mie foto è ancora il cielo della mia infanzia. Mi sono reso conto di questo molto tempo dopo. Naturalmente non c'è un’intenzionalità precisa ma fa parte del mio modo di vedere il mondo e, in questo senso, del mio essere brasiliano. Una modalità che porto e porterò sempre dentro di me, fino alla morte. Questa è la luce in cui io ho vissuto, questo il modo di comporre con cui sono nato e come si è formata quella "cosa" che, in fondo, si chiama estetica.
Anche la mia intera formazione, tutto ciò che mi fa pensare e riflettere, tutto il mio universo visuale, tutto questo si è formato in Brasile, durante la mia gioventù. Pur se ho imparato a fotografare in Francia, la mia origine ha il 'marchio" della terra da cui provengo. Io fotografo come il mio paese mi ha insegnato a guardare e anche la scelta del bianco e nero si lega al mio passato. Sinceramente, non riesco a ricordare la mia città colorata, anche perché i tropici, a differenza di quello che si pensa, non sono colorati. È una proiezione di esotismo delle persone che non vivono ai tropici. Se si viaggia in Amazzonia, si vede un continente monocromatico: verde. Una immensa massa verde. Nello stesso modo, nella mia città nessuno si sarebbe mai vestiti con un abito colorato, che so, rosso o blu. I colori erano bianco o avana chiaro, oppure blu scuro o nero. Così si viveva. non ricordo mia madre vestita, che so, di rosso o di verde. Mai. Mai.
Così gli alberi della mia Terra. Quando chiudo gli occhi e cerco di vedere quel verde denso dei tropici diventa nero, diventa grigio e quella luce immensa, è una luce chiara, drammatica, bianca. Questa quantità di colori sofisticati è stata creata qui, sono di questo mondo. Anche le pellicole a colori sono state create qui. Non esistono questi scarti di luce non sono fatti per una pelle scura, per una pelle nera. Se una pelle nera viene fotografata con una pellicola a colori, perde la sua profondità. Innanzitutto, c'è bisogno di una pellicola che resista all'umidità, al calore, una pellicola che possa mostrare e tradurre la luce in bianco e nero. Queste, sono pellicole create per luoghi come l'Italia, come l'Europa… Ciò che si adatta meglio alla nostra vita, alla nostra realtà del sud è senz'altro il bianco e nero.
E il progetto delle migrazioni?
Nel mio modo di vedere, Terra fa parte del progetto sui movimenti di popolazioni e questo, a sua volta, è una continuazione di La Mano dell'Uomo.
Come è possibile organizzare un lavoro così grande e complesso come quello sui movimenti delle popolazioni che, per un periodo di sei anni, prevede la realizzazione di un grandissimo numero di reportage in tutto il mondo?
C’è bisogno di un grande lavoro; io ho passato un anno e mezzo a preparare il progetto.
Hai sicuramente un piano di lavoro ma questo, immagino, deve essere elastico...
Certamente ho un piano di lavoro che perseguo circa al sessanta per cento. Ad esempio, alla fine del 1993 in Rwanda non era ancora accaduto nulla e sarebbe stato difficile prevedere: tutto è scoppiato nel 1994. Io quindi devo avere un margine molto grande di libertà per poter legare il mio lavoro all'attualità. Con questo margine riesco a modificare il mio piano d'azione. Il lavoro sui curdi, al contrario, era già in programma e anche se all'inizio la situazione in Kurdisthan non era al punto di crisi di oggi, era un argomento di grande complessità che meritava il mio interesse. Fino alla fine del progetto, ho alcuni punti fissi su cui procedo e che sicuramente documenterò ma possono apparire nuove situazioni che mi portano poi a modificare il piano di lavoro. È un progetto aperto, totalmente in progress e legato all'attualità. L'ultimo lavoro realizzato, quello sullo Zaire, terminato da poco, è stato distribuito in tutto il mondo. La situazione in Zaire è così allarmante che ho scritto anche un testo di accompagnamento, pubblicato su Paris Match, in cui mi appello alle autorità internazionali sollecitandole a prendere un provvedimento e misure chiare e precise su questo gravissimo eccidio: stanno eliminando intere popolazioni e si tratta di un eccidio noto che si sapeva sarebbe avvenuto. Se non si interviene immediatamente, si rischia uno sterminio gigantesco. Ecco, questo è un esempio di quanto questo lavoro debba essere legato all'attualità in modo forte.
È questo il ruolo e il significato che cerchi nelle tue fotografie.
Io cerco l'uomo, nelle mie fotografie. Al fondo di tutto, bisogna capire che la realtà è fatta dall'uomo e che l'uomo è sempre lo stesso identico essere, al di là del colore di pelle. Lo stesso animale che si organizza in comunità simili in tutte le parti del mondo. Tutti i conflitti, tutte le lotte, tutte le rivoluzioni, sono legate l'una all'altra. Per poter realizzare una buona fotografia di documentazione deve esserci una rappresentatività e per esserci rappresentatività, ci deve essere questo approccio generale. Quando fotografo, io faccio un'azione che è di comunicazione ma anche politica e sociale, economica. È questo, di fondo, il mio discorso, il mio viaggio continuo.