Il filo del discorso. Mestiere e metodo in Gianni Berengo Gardin

Pubblicato il : 03/05/2024 17:39:19

Maestro del bianco e nero, della fotografia di reportage e di indagine sociale, in quasi settant’anni di carriera Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) ha raccontato con le sue immagini l’Italia dal dopoguerra a oggi, costruendo un patrimonio visivo unico caratterizzato da una grande coerenza nelle scelte linguistiche e da un approccio “artigianale” alla pratica fotografica.
Arriva a Udine dal 19 maggio al 15 settembre 2024, come unica tappa del nord Italia, la mostra "Gianni Berengo Gardin – L’occhio come mestiere” curata da Margherita Guccione e Alessandra Mauro, che il MAXXI ha realizzato in collaborazione con Contrasto e i Civici Musei di Udine, nella magnifica cornice del Salone del Parlamento e delle sale della Galleria d’Arte Antica del Castello di Udine.

Per raccontare il progetto di questa mostra, abbiamo scelto il testo di Alessandra Mauro, Il filo del discorso. Mestiere e metodo in Gianni Berengo Gardin dal volume Gianni Berengo Gardin. L'occhio come mestiere (Contrasto).


Nel 1970 Cesare Colombo curò un bel libro dedicato alle fotografie di Gianni Berengo Gardin, L’occhio come mestiere. Si tratta di un volume agile, disegnato e impaginato dallo stesso Cesare, amico di vecchia data di Gianni. Le fotografie sono raccolte per temi e per luoghi: dalla Parigi del suo “primo flirt fotografico”, alla Monaco di Baviera fotografata durante il carnevale. Si passa poi a temi e ambiti più italiani, dalle “Stagioni di Venezia” al “Viaggio in Toscana”, alla Sardegna “Isola ignota”, fino ai temi forti del suo lavoro di reportage: i manicomi di “Morire di classe”, le manifestazioni di piazza (“I mesi della rabbia”), la vita nei campi (“Il solco difficile”), prima di affacciarsi di nuovo al mondo e raccontare dello “Sbarco a New York”, della Russia che “coesiste” e poi de “L’ultima Spagna”, quella della Settimana Santa a Siviglia.

Il libro è accompagnato da un vibrante testo di Colombo dove leggiamo la sua attenzione, che condivide con l’amico Berengo, verso la fotografia di documentazione e l’importanza di dare della realtà un’immagine non accondiscendente ma a volte critica, polemica. Leggiamo lo sforzo, che era di Cesare, di Gianni e di una generazione di amici e colleghi, di lavorare su narrazioni visive fatte di libri fotografici con pagine singole, doppie pagine, vuoti e attese, costruendo così un ritmo nuovo nel panorama editoriale italiano. Soprattutto, sentiamo come la grande novità di questa stagione visiva, di cui il libro è una sorta di eccezionale pietra di paragone, non risieda nel mettere una dopo l’altra “belle immagini”, ma nell’affermare uno sguardo, un modo di essere, un’evoluzione. Leggiamo nell’introduzione: “Cosa pensa Gianni, cosa vuole, da che parte sta, dov’è cambiato, dove sta andando: se non si ha questo tipo di spiegazioni da dare, è inutile stampare un libro e metterlo in vendita”. Aprendo e sfogliando quel piccolo, grande libro, anche oggi si comprende perché la fotografia italiana abbia cercato e trovato in Gianni Berengo Gardin un interprete, un testimone; qualcuno in grado di utilizzare il suo occhio come strumento perfetto per esercitare un mestiere.

Abbiamo voluto partire da questo libro, dalla dimostrazione di vita che racchiude, per proporre ora una nuova raccolta di fotografie di Gianni Berengo Gardin, tra le più celebri, le poco viste e le inedite, messe insieme in tanti anni di vita e di lavoro. Lo abbiamo voluto fare in una sorta di omaggio all’autore, prima di tutto, ma anche a Cesare Colombo, a quel volume di oltre cinquant’anni fa e a una stagione cruciale della nostra storia fotografica, quando si cercava nell’immagine ai sali d’argento non la trasfigurazione artistica ma la testimonianza viva e bruciante, vera come non mai, della realtà.



Gianni Berengo Gardin è figlio di questa stagione e di questo sguardo. Alla fotografia arriva abbastanza presto, quando a Venezia, più che ragazzo ormai giovane uomo, si occupa del negozio di vetri di famiglia e intanto esplora le possibilità della macchina fotografica. È affascinato dal bianco e nero, dalla grana grossa della stampa fotografica, dall’immagine che cattura e ferma la cronaca minuta di vita quotidiana, i momenti di emozioni trattenute e familiari. Nascono così le prime, straordinarie immagini di Venezia, in cui vediamo una città intima e quasi sussurrata, sempre assai poetica. Sono le stesse fotografie che lo faranno conoscere al mondo intero e lo spingeranno poi a compiere il grande salto, lasciare la laguna e le sue atmosfere avvolgenti per provare a diventare professionista. Un salto importante, rischioso per chi ha già una moglie e due figli.

Un salto che lo porta nella Milano dei primi anni Sessanta, a cercare con la fotografia non certo di riempire il fine settimana ma di trasformare la passione in lavoro, in professione e ancora di più, appunto, in mestiere. A Milano frequenta i luoghi chiave della città, come il Bar Jamaica, dove oltre a scrittori come Luciano Bianciardi e artisti come Piero Manzoni si ritrovano fotografi poco più grandi di Gianni ma già con un fascino e una consapevolezza che lui invidia: Ugo Mulas, bello e intenso, e Mario Dondero di cui diventerà grande amico.

È soprattutto a Milano, in queste strade e in questi anni, che la passione per la fotografia diventa lavoro, pratica professionale e coscienza di quel che lui vuole essere. Qui, insomma, si forma lo sguardo come attitudine e come volontà. Arrivano le committenze, piccole e grandi. Lo studio fotografico diviso con i colleghi di sempre (anche Cesare Colombo, tra l’altro), le lunghe collaborazioni con importanti aziende che gli aprono le porte del mondo del lavoro. Nasce e cresce in questo modo anche la sua consapevolezza di uomo, di cittadino che vuole essere protagonista e si adopera quindi a conoscere quel che accade intorno a sé e affermare, quando possibile, un’opinione. E se l’Alfa Romeo, l’Ilva e l’Olivetti lo aiutano a crearsi una coscienza sociale, i tanti anni passati a lavorare per il Touring Club realizzando bellissimi libri, forse un po’ oleografici, sull’Italia e poi sul mondo, gli permettono di viaggiare, esplorare il territorio, apprezzarne il paesaggio, scorrerlo con gli occhi e conoscerlo.

Così, essere fotografi per Gianni Berengo Gardin significa, foto dopo foto, riuscire a trovare per sé un ruolo di “osservatore partecipante”, come si dice in antropologia culturale, fatto di ascolto e attesa, come è sempre stato nella tradizione dei grandi autori di documentazione del Novecento. In fondo, erano loro ad affermare che bisogna imparare a raccontare
le cose come sono, senza errori né confusioni; e se la documentazione è onesta, veritiera, limpida e verace, diventa – come diceva Dorothea Lange – un atto estremamente nobile, più di tutto un racconto di finzioni.

Anche Gianni impara a immergersi nella realtà, a documentare i cambiamenti sociali, del costume, della politica. Questo è il suo mestiere; lui lo ha scelto con convinzione e lo esercita con una costanza ammirabile e con un metodo infallibile, perché sedimentato nel tempo e affinato in tante prove e tanti lavori.

 

Ogni narratore, del resto, ha il suo metodo, costruito quasi su misura. Proverbiale, ad esempio, quello di Georges Simenon, che prevedeva regole ferree per i tempi di scrittura (una reclusione autoimposta, ogni giorno un capitolo: nove giorni per nove capitoli e al decimo il libro è finito), una ricognizione dei personaggi condotta con una formidabile manovra di avvicinamento (i nomi scelti scorrendo l’elenco del telefono, le grandi buste gialle su cui annotare per ognuno le caratteristiche), la progressiva costruzione di un universo personale per tutti i personaggi e infine, soprattutto, la capacità di creare quell’atmosfera unica, tanto speciale e tanto amata, delle sue storie. Anche Berengo Gardin ha un suo metodo e la sua narrazione è fatta di avvicinamenti alla ricerca, per ogni immagine, del profondo rapporto che lega il personaggio in primo piano al contesto in cui si muove. “Negli anni, attraverso la fotografia, ho cercato di svolgere una narrazione” ha scritto Berengo Gardin “e quando fotografo un paese cerco sempre di partire dall’esterno: mostrare dove si trova, come è costruito, entrare nelle strade, poi nei negozi, nelle case e fotografare gli oggetti. Il filo è questo; si tratta di seguire un percorso logico, semplice, capace di rivelare un paese, una città, una nazione. E così, riuscire a conoscere l’uomo”.

Ogni visione è estemporanea e folgorante, come un lampo che coglie l’obiettivo e l’occhio del fotografo. Eppure, ogni visione è anche il frutto di studio e di ricerca, di sensibilità sincera e sintonia profonda provando a cogliere quel legame unico che salda le persone all’ambiente in cui vivono e permette loro di riempire di gesti e movimenti, insieme naturali e precisi, esatti e unici, l’atmosfera che li circonda. In questo modo il filo del racconto, il percorso logico di cui parla Berengo Gardin, riesce a rivelare un paese, una città, una nazione. Tenere saldo questo filo gli ha permesso di seguire storie e vicende tra le più complesse del reportage sociale, come entrare nei manicomi prima della riforma Basaglia e creare immagini di denuncia e rispetto, straordinarie e terribili. O vivere con gli zingari e riprendere, con fiducia e curiosità, i momenti corali della loro vita, come le feste e le cerimonie. Ma gli ha anche permesso di muoversi rapido in un piccolo paese, all’interno di una comunità religiosa, in una fabbrica come nelle risaie del vercellese o sulle montagne dell’Alto Adige; di procedere in una processione o lungo i canali della sua Venezia, vero luogo del destino, dove Berengo torna e ritorna più volte per esplorare i cambiamenti della città e le ricorrenze dello sguardo o, ancor più recentemente, per denunciare lo scempio del passaggio con le grandi navi in immagini classiche eppure incredibilmente contemporanee. Ecco la forza di Gianni Berengo Gardin e del suo “mestiere”: le sue immagini hanno raccontato, e ancora raccontano, l’uomo nel suo ambiente, soprattutto in Italia, di cui Berengo sembra comprendere tutto, desideri e aspirazioni, aberrazioni e sogni. Le sue fotografie ricostruiscono un’epoca, la nostra, accompagnando lo sguardo e costruendo una visione, quella del nostro presente e del nostro territorio.

Seguiamo allora Gianni Berengo Gardin lungo il filo del percorso fotografico che qui ci offre e ricostruiamo con lui il lungo racconto di un’Italia ritratta in oltre sessant’anni di osservazioni. Un paese che conosciamo e che in parte, come sempre, ci sorprende e ci accoglie. Ci fa sorridere e ci indigna.

Un percorso che si dipana immagine dopo immagine, attento a fermare grandi momenti e situazioni di una semplice, splendida normalità; personaggi celebri della vita culturale, reportage dirompenti, paesaggi che speriamo non cambino mai. Seguiamolo e ricostruiamo così anche il percorso del suo sguardo, certi che per chi come lui intende documentare ciò che la società è e ciò che dovrebbe essere, non mancheranno mai nuove occasioni di incontro, nuovi aspetti su cui soffermarsi, nuove visioni su cui esercitare, con giusto metodo, il proprio mestiere.

                                                                                                                             Alessandra Mauro

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