Dal nostro archivio: Weegee di Weegee. 

Pubblicato il : 15/07/2024 16:10:38

Arthur Fellig, alias Weegee, lascia l’Austria assieme alla famiglia per cercare fortuna. A New York conosce le terribili condizioni di vita degli immigrati, studia e lavora come strillone e venditore di caramelle fino a quando decide che la fotografia sarà la sua ragione di vita. Per oltre vent’anni fotografa la vita notturna: i bassifondi, i drammi, i criminali, gli abbandonati e i diseredati. Compra un’automobile e vi monta una radio a onde corte collegata al quartier generale della polizia, per arrivare sempre primo sui luoghi dei delitti o degli incidenti. Un personaggio anticonformista, truculento e turbolento; il fotografo dei fatti di cronaca più scabrosi e piccanti ma anche un testimone della miseria, capace di commuoversi davanti alla tragicità e alla violenza delle foto che scatta. Ecco la prima parte della sua autobiografia Weegee di Weegee. 

 

Ferrotipo

La macchina da scrivere è rotta, non possiedo dizionario e non ho mai sostenuto di conoscere l’ortografia e se Shakespeare, Balzac e Dostoevskji ce l’hanno fatta alla dura maniera antica, a mano, ce la farò anche io. Non essendo stato mai tossico, né alcolizzato, né psicopatico non mi serve un ghost writer.
Non ho inibizioni come non ne ha la mia macchina fotografica. Ho vissuto una vita piena e ho provato di tutto. Quello che a voi pu
ò sembrare anormale per me è normalissimo. Se dovessi ricominciare da capo, vorrei vivere la stessa vita nello stesso modo... solo di più.
Tutto quello che scrivo
è vero... e lo posso dimostrare: ho le foto, i conti, i ricordi, e le cicatrici.
Sono nato in Austria e sono venuto in America che avevo dieci anni.
Come centinaia di altri prima di lui, mio padre era partito per l’America per primo in modo da guadagnare i soldi necessari a farsi raggiungere dal resto della famiglia. Era andato ad abitare nel lower East side, dov’era affluita la gran parte degli immigranti, essenzialmente perch
é parenti e amici vi si erano trasferiti prima di loro. Si era dato da fare con un lavoro dopo l’altro cercando disperatamente di mettere insieme i soldi per pagarci il viaggio.
Una volta avevamo fatto i bagagli ed eravamo pronti a partire, ma scoprimmo che era un falso allarme. I soldi che ci aveva mandato pap
à erano di quelli che si usavano a teatro. Non sapevamo che ce li aveva mandati per farci uno scherzo... a noi erano sembrati buoni. Da una parte la banconota diceva “20” e dall’altra c’era il jolly... Sul rovescio di quelli che sembravano fantastici bigliettoni da 20 i ragazzi di Madison Avenue del 1910 avevano stampato le pubblicità di qualsiasi cosa, dalle macchine per cucire ai fonografi. A mia madre, in Austria, mio padre aveva spedito una manciata di quelle meraviglie... duecentoquaranta dollari. E lei, felice, era corsa alla banca della nostra città, Złoczew, dove, senza chiederle niente, le cambiarono quei “volantini” con vera valuta austriaca. La mamma comprò per tutti noi i biglietti del bastimento e ancora le rimasero dei soldi. Eravamo pronti a partire per Amburgo dove ci saremmo dovuti imbarcare, quando ci raggiunsero i funzionari della banca. Si erano sbagliati, i soldi mandatici da papà erano finti! Così dovemmo tornare a casa e aspettare che ci mandasse quelli veri.
Intanto pap
à continuava a lavorare. Nel frattempo aveva deciso che gli sarebbe andata meglio se si fosse messo in proprio con un carretto a mano. Quando a Złoczew arrivò il secondo invio, i soldi erano buoni e tutti e cinque, la mamma, i miei tre fratelli e Weegee poterono salpare con un biglietto super-lusso di terza classe. A Ellis Island, che sembrava il posto più bello del mondo, gli ufficiali sanitari dell’immigrazione ci esaminarono minuziosamente. Soprattutto gli occhi. Un signore gentile mi diede una banana e un’arancia. Non sapevo cosa farci. A Złoczew non avevo mai visto né l’una né l’altra. L’uomo sbucciò accuratamente la banana per me, e a mangiarla mi arrangiai da solo. Il sapore era buono... non sapevo a cosa assomigliasse ma era buono. Immaginai che se la banana andava sbucciata, così fosse anche per l’arancia. Me la sbucciai da solo. Anche l’arancia era buona.
Pap
à era lì che ci aspettava. Mostrò alle autorità abbastanza soldi da convincerli che non saremmo stati un peso per la società... penso che fossero venti dollari... e poi ci portò alla nostra prima casa di New York, un grande condominio popolare di Pitt Street vicino a Rivington, che affacciava sul cortile.
Nelle due stanze sopra alla panetteria sembrava di stare in una fornace dell’inferno. L’affitto era dodici dollari al mese ma a quei tempi chi aveva tutti quei soldi?
Ben presto il carretto di mio padre ci torn
ò utile per spostare le nostre cose in un altro palazzone di appartamenti, di quelli con solo l’acqua fredda, questa volta tra Cherry e Jackson Street vicino al fiume. Avevamo tre stanze al quinto piano – senza ascensore. Il bagno in corridoio serviva quattro famiglie. Al posto della carta igienica noi ragazzi usavamo il Journal di Hearst. Pubblicava i fumetti migliori, i Katzenjammer Kids, Abe Kabbible, Happy Hooligan; e pubblicava anche gli editoriali di Arthur Brisbane, che continuava a martellarci con la sua storia del gorilla capace di mandare al tappeto l’allora campione mondiale di pugilato (e chi se ne frega?). Ma non bisognava pagare l’affitto perché i miei genitori facevano le pulizie: lavavano le scale, portavano via la spazzatura e litigavano con gli inquilini sempre in ritardo con la pigione.
Molte sere avevo una tale fame che mi addormentavo piangendo a stomaco vuoto.
In autunno, malgrado l’et
à, mi iscrissero alla prima elementare di una scuola pubblica come gli altri bambini immigrati, per imparare l’inglese. Poiché sapevo solo il polacco e il tedesco, gli altri bambini mi prendevano in giro: “Ripetente! Ripetente!” Dopo due anni così fui ammesso alla classe giusta, in Quinta A.
Mi piaceva quella scuola. Mi aveva rivelato il mondo dei libri; questo ovviamente, non appena ebbi un’infarinatura della lingua. Ma la vera fuga dalla realt
à, dalla realtà del freddo e della fame, venne con i libri presi in prestito alla biblioteca. Anche se dividevo la brandina con un fratello piccolo, mi mettevo sempre dalla parte del muro: alla luce di una candela che ardeva sul davanzale, potevo leggere fino a notte fonda. Già da allora ero uno della notte. Vivevamo attaccati alla scuola ma io non riuscivo ad alzarmi la mattina. Quando sentivo suonare la campanella, saltavo giù dal letto, mi vestivo a razzo e correvo in classe... senza colazione. All’ora di pranzo tornavo a casa. Mia madre mi faceva trovare qualcosina di caldo da mangiare e anche un centesimo per una caramella. Mi piacevano i miei insegnanti. Pensavo fossero le persone piu meravigliose del mondo. Ai miei occhi erano veri maestri e io ero ansioso di apprendere. Comunque, quando ci assegnavano i compiti per casa io scribacchiavo subito le risposte, addirittura prima di uscire da scuola, così non me li dovevo trascinare nel pomeriggio.
Uscito da scuola avevo di meglio da fare. Andavo in giro a vendere giornali ma senza successo, giacch
è erano pochi quelli che nel mio quartiere leggevano l’inglese e per quanto mi sforzassi non riuscii a sfondare. Feci del mio meglio per emulare i racconti di Horatio Alger e passare da strillone a riccone, ma ben presto decisi che sotto doveva esserci qualche imbroglio. Nessuno poteva essere davvero così puro di cuore e cosi smisi di leggere quella roba e passai a Nick Carter. Il famoso detective divenne il mio nuovo eroe e dopo una settimana da strillone decisi di mettermi nel commercio delle caramelle.
Andavo dai pasticceri grossisti dove i negozi di dolciumi compravano la loro merce e chiedevo un paio di dollari di caramelle a credito. Mi davano le barrette alle mandorle Hershey, le gomme da masticare Wrigley’s, le caramelle morbide Greenfield, le Tootsie Rolls eccetera.
Dopo di che, cominciai a guadagnare da uno a due dollari al giorno vendendo caramelle. Iniziavo, dopo la scuola, facendo il giro delle piccole sartorie. Per mia fortuna le ragazze, che guadagnavano appena cinque dollari a settimana, sembravano sempre disposte a spendere un centesimo per una tavoletta di cioccolata o un pacchetto di gomme da masticare... e comunque erano pronte a comprarmele. Qualche volta davo loro le caramelle a credito, tanto alla fine della settimana saldavano sempre i conti e io potevo a mia volta saldare il grossista. Il mio profitto era del 100 per cento... sempre che non mangiassi troppa della mia merce io stesso.
Dopo le sartorie mi mettevo alla stazione della sopraelevata “L”, sulla Terza Avenue all’incrocio tra la Bowery e Grand Street. Spesso ero inseguito dalle guardie della sopraelevata per via delle proteste dei rivenditori di caramelle lungo i binari che ritenevano la mia concorrenza sleale. Ma io ci tornavo sempre. Ci rimanevo fino a quando non avevo finito le mie scorte e poi, alle otto di sera circa, me ne tornavo a casa e tutto fiero consegnavo i soldi a mia madre, tutte monetine da uno e da cinque centesimi.
I miei guadagni, per quanto esigui, aiutavano a comprare il cibo e i vestiti di seconda mano perch
é, a parte risparmiarci di pagare l’affitto, mio padre non portava gran soldi a casa. Era un uomo molto pio che non avrebbe mai lavorato di sabato, per cui gli era difficile tenersi un lavoro regolare. Comunque, come venditore ambulante col carretto poteva decidere da solo i suoi orari. Per cinquanta centesimi poteva prendere in affitto un carretto da una stalla e poteva anche farsi dare la merce da vendere a credito. Prima della Pasqua ebraica faceva provvista di piatti perché le casalinghe ebree avevano bisogno di un nuovo servizio di piatti per le feste. Spingere il suo pesante carico e anche trovare l’angolo giusto dove fermarsi a vendere era per lui una sofferenza. Malgrado facesse ogni sforzo per riuscirci non era portato per gli affari (col tempo papà tornò alla scuola della Sinagoga per realizzare il suo sogno di gioventù e divenne rabbino, per l’orgoglio di tutta la famiglia).
Le nostre stanze erano una ghiacciaia d’inverno e un forno d’estate. Per fuggire al gran caldo noi bambini andavamo a dormire sulla scala antincendio. Il che andava benissimo finch
é non cominciava a piovere, quando ci toccava rientrare nel caldo soffocante. Dentro ci aspettavano le cimici. Che erano le ultime a ridere, e a mordere.
Avevamo una stufetta a gas che andava a monete. Poich
é per lo più non avevamo quartini, ci mettevamo dentro quelli di stagno che poi venivano cambiati con soldi veri quando passava l’esattore. Tanti immigranti quando arrivavano in questi stabili spegnevano il gas soffiando sopra alla fiammella invece di spingere l’interruttore, e morivano così. I vicini non facevano che ripeterci di non soffiare mai sulla fiammella.
Se volevi concederti il lusso di un bagno c’erano i bagni pubblici gratuiti dove per due centesimi ti davano un pezzo di sapone e un telo da bagno (se lasciavi cinque centesimi di deposito). Nelle torride giornate d’estate, tornando a casa dal lavoro spesso passavo dai bagni pubblici di Monroe Street. In genere erano affollati di gente che aspettava il suo turno seduta sulle panche. Ma anche fuori c’era spesso la coda. Poich
é i bagni chiudevano alle otto, i custodi, ansiosi di tornare a casa, a quel punto ci mandavano nelle docce a due per volta e poi battevano sulle porte per metterci fretta. Normalmente ci potevi star dentro una mezz’ora ma quando si avvicinava l’ora di chiusura non ti concedevano più di dieci minuti.
Il venerd
ì era il giorno delle famiglie ai bagni pubblici (divisi in due settori, uno per gli uomini e l’altro per le donne). Le famiglie, che arrivavano insieme a frotte, si portavano il loro sapone e i loro asciugamani. C’erano anche i bagni rituali, chiamati mikveh, che erano di proprietà privata e costavano venticinque centesimi. Quei bagni avevano le vasche e anche giorni per le donne e giorni per gli uomini. Quando un ragazzo si fidanzava con una ragazza, il padre e spesso anche i fratelli di lei portavano il promesso sposo al mikveh per dargli un’occhiata e assicurarsi che fosse fisicamente in grado di metter su famiglia. Avevo quattordici anni e frequentavo la seconda media quando annunciai alla preside della mia scuola che me ne andavo e volevo i miei documenti per lavorare. Lei mi scongiurò di finire la scuola dell’obbligo, ma a me non andava di continuare quell’agonia per un altro anno e mezzo. Eravamo poveri in canna e dovevo andare a lavorare e anche di corsa.
Allora mi ero fatto fare la foto da un fotografo di strada che usava il ferrotipo ed ero rimasto affascinato dal risultato (credo di essere stato quello che si direbbe un “fotografo nato” con l’iposolfito nelle vene).
Quel fotografo di strada aveva davvero messo in moto qualcosa nella mia testa. Ordinai tutto l’equipaggiamento da ferrotipo da un catalogo di vendite per corrispondenza di Chicago e non appena arriv
ò cominciai a fare il fotografo di strada a mia volta.
Dopo parecchi mesi ebbi il primo lavoro da un fotografo professionista di Grand Street. L
ì, in un vero studio con tanto di lucernario, pensai che avrei potuto imparare di più di fotografia. Lì erano specializzati nel fotografare articoli pesanti che i commessi viaggiatori non si potevano portare appresso: candelieri, letti di ottone, pianoforti, cristalleria, piatti, sofà superimbottiti, tavoli, sudari, bare e perfino lapidi cimiteriali. Queste ultime fotografate in loco.
Il laboratorio sembrava pi
ù una morgue che uno studio fotografico. Tutto il giorno aiutavo a spostare i grandi letti d’ottone e sistemarli sotto il lucernario. Lucidavo i candelabri, riempivo i sudari con la carta appallottolata per dargli un po’ di vita e fornire un bel campionario alle pompe funebri. Il nostro cliente più importante per le foto di bare aveva scelto il motto: “Felicità in ogni cassa!” Allora esisteva solo il bianco e nero e per chi voleva le foto a colori c’erano delle artiste che le coloravano a olio. Lo studio fotografava anche gli incendi nelle fabbriche, foto che servivano agli industriali per tutte le pratiche assicurative. Io dovevo trascinarmi la pesante banco ottico 8x10 e il cavalletto (non esistevano ancora le macchine portatili), montare la macchina, e soffiare la polvere del flash. Mi mettevo in bocca un tubo e soffiavo la polvere su uno straccio impregnato di alcol che prendeva fuoco: uno scoppio come quello di una bomba illuminava la scena.
Tutti i giorni al lavoro indossavo una camicia bianca, ragionevolmente pulita, con un colletto duro di celluloide, la cravatta e i calzoni alla zuava. Mia madre mi dava un paio di panini e quindici centesimi. Dieci per il trasporto e cinque per un quarto di latte. Molto spesso la mattina se non c’erano soldi mi toccava impegnare la sveglia. La impegnavo per mezzo dollaro e poi il giorno di paga la riscattavo sempre. Il Big Ben passava pi
ù tempo al monte dei pegni che con me.
Invidiavo gli altri impiegati quando, all’ora di pranzo, andavano nel saloon d’angolo e per cinque centesimi di birra avevano diritto a un pasto caldo gratis: minestra, panino con la carne eccetera. Io con i miei calzoni sotto il ginocchio non potevo entrare nel saloon. E la pausa caff
è non era ancora stata inventata.
Oltre ad aiutare il fotografo dalle otto di mattina alle sei di pomeriggio, facevo le commissioni per lui, asciugavo le stampe, passavo la ramazza e facevo qualsiasi altra cosa ci fosse da fare. Molte sere all’ora di chiudere il capo distribuiva delle buste piene di bastoncini di zucchero da cinque centesimi duri come pietre e ci diceva ridendo: “Stanotte vi tocca lavorare e queste caramelle vi faranno passare la fame.” Spesso ci dava dei dolciumi anche di domenica. Ma niente paga extra.
Una volta, andando ad aprire la busta paga, oltre ai soliti quattro dollari e cinquanta centesimi ci trovai un dollaro in pi
ù. Per la gioia decisi di festeggiare comprandomi un orologio da polso Ingersoll da un dollaro, poi presi in prestito un paio di calzoni lunghi da uno dei miei fratelli, me li misi sopra ai miei pantaloni alla zuava e andai all’avanspettacolo sulla Bowery: il Miner’s Burlesque. Quella sì che era vita.
La settimana successiva la mia busta paga conteneva solo quattro dollari e cinquanta centesimi. Pensando che si trattasse di un errore chiesi al padrone: “Dov’e il mio aumento?” e lui rispose con un largo sorriso: “Quello non era un aumento, erano gli straordinari accumulati.” Quel dollaro corrispondeva agli “straordinari accumulati” in due anni di lavoro!
La vera star dello studio era l’operatore della macchina fotografica. Portava il papillon e guadagnava venticinque dollari a settimana, che ai tempi erano una bella cifra. Ero l
ì da circa due anni quando lui se ne andò e io cominciai a fare il suo lavoro. Il mio salario fu portato a sette dollari a settimana. Lavoravo come operatore da qualche settimana quando dissi al capo: “Senti un po’, il mio lavoro e all’altezza di quello dell’altro operatore se non addirittura migliore. Dovrei prendere almeno dodici dollari e cinquanta a settimana.” E lui rispose: “No! Prendere o lasciare.” Gli dissi dove si poteva ficcare il suo lavoro e me ne andai.  



(Le didascalie delle immagini traducono i testi originali, scritti dallo stesso Weegee)

La mia sede centrale.

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