Dal nostro archivio: Un tempo, un luogo Eudora Welty 1971
Pubblicato il : 15/07/2024 16:01:06
Un tempo, un luogo
Queste foto le ho scelte tra le centinaia che ho scattato in Mississippi appena tornata a casa dal college e piombata nel bel mezzo della Depressione. Eravamo in tanti, e io ero una di loro, ad aver trovato il primo lavoro a tempo pieno con la WPA, Works Progress Administration. Come pubblicitaria di primo livello per l’Ufficio di Stato, fui spedita in giro nelle ottantadue contee del Mississippi: visitavo i nuovi collegamenti tra fattorie e mercato o le nuove piste aeree ricavate dove prima pascolavano le mucche, oppure intervistavo il giudice di un qualche tribunale minorile, o protendevo libri da un Bookmobile distribuendoli nelle mani protese verso il tesoro che erano, o aiutavo a metter su gli stand nelle fiere di campagna, poi di notte approdavo in qualche stanza d’albergo di paese, sotto un rumoroso ventilatore elettrico, a scrivere progetti da stampare sui settimanali di provincia, se c’era spazio. In un lampo mi portai dietro la macchina fotografica.
Scattare quelle foto fu un’iniziativa tutta e solo mia, anche se temo che il tempo che le dedicavo fosse del WPA; ma col WPA le foto non c’entrano niente, se non per avermi regalato l’occasione di viaggiare e di vedere davvero per la prima volta, in tutta la sua ampiezza e da vicino, la vera natura del posto dove ero nata, la benedizione di scoprire il Mississippi, quello vero, non l’astratto stato della Depressione.
La Depressione, in verità, non era un fenomeno avvertibile nello stato più povero dell’Unione. A New York c’erano state le file senza volto per il pane; nella zona di Farish Street, a Jackson, la mia città, il proprietario del My Blue Heaven Cafe aveva scritto col dito intinto nel liquido lavavetri sulla vetrina della porta d’ingresso:
Apriamo alle 4 e 30 per servirvi
A che ora chiudiamo non è dato
Il cuoco sarà lieto di fornirvi
Per 5 & 10 cents uno stufato
Quel messaggio personale e speciale mi colpiva più di tanti aspetti fenomenali. Mi succedeva dovunque andassi, e scattavo foto.
Avevo un modello base della Kodak, appena un gradino più su della Brownie. (Dopo, mi permisi qualcosa di meglio, ma la maggior parte di queste foto sono fatte con la mia prima macchinetta). La filiale di Jackson della Standard Photo Company mi sviluppava i rullini; io mi ero fatta un torchietto per stampa a contatto e di notte, quando ero a casa, stampavo in cucina. Con un colpo di fortuna, trovai un ingranditore usato nell’ufficio governativo statale, lo State Highway Department, e lo sistemai sul tavolo della cucina. Aveva una sola apertura di diaframma, e io contavo il tempo delle esposizioni col sistema prova/errore del conto alla rovescia.
Non lo dico per scusarmi di una certa durezza, perché credo che se queste foto hanno un qualche merito, non ha niente a che fare con come sono state fatte: il loro merito sta tutto nel soggetto. Adesso penso di farne un libro perché trovo che, prese tutte insieme, rappresentino a modo loro una testimonianza: la testimonianza che coniuga alcuni elementi di un tempo e di un luogo. Un fotografo migliore e meno ignorante di me certo avrebbe tirato fuori foto migliori, ma non queste; perché non avrebbe potuto trovarsi in una posizione migliore della mia che mi muovevo sulla scena scopertamente e al tempo stesso invisibile perché ne facevo parte, ci ero nata, ero data per scontata.
Nemmeno un fotografo operatore sociale avrebbe potuto scattare queste stesse foto. Il libro, lo devo chiarire, non vuole essere un documento sociale ma un album di famiglia – che è qualcosa di meno e qualcosa di più, ma disadorno. Adesso le immagini mi sembrano rientrare naturalmente nelle categorie semplici e ovvie sulle quali non potrei neppure dopo tanto tempo confondermi, i giorni della settimana, i giorni lavorativi; il sabato, quando si sta a casa o si fa una gita; e la domenica.
Il libro è come un album anche perché le foto sono tutte istantanee. Sarà evidente che per lo più sono state scattate senza che il soggetto se ne rendesse conto o con una consapevolezza solo marginale. E quelle dovrebbero essere le migliori, ma non sono sicura che lo siano. Le istantanee di persone che sapevano di essere fotografate sono per lo più altrettanto spontanee: io mi sono limitata a chiedere loro se potevano continuare a fare quello che stavano facendo mentre io le fotografavo. Non ricordo di aver mai incontrato una reazione più forte di un certo divertimento. (La contrabbandiera, la signora con il cappello e il rompighiaccio alzato, faceva solo finta di volermi cacciare via, scherzava; sapeva che non ero lì per denunciarla).
Chiesi e ottenni il permesso dalla Holiness Church di assistere alla funzione religiosa e fotografare; mi misero seduta in prima fila davanti alla congregazione e si dimenticarono di me; e quando cominciarono a suonare i tamburelli e presero a cantare e a ballare non avrebbero fatto caso nemmeno alla presenza dell’angelo Gabriele in incognito. La mia ignoranza in merito all’esposizione in condizioni di scarsa illuminazione sotto lampadine nude è responsabile del risultato modesto, ma le presento comunque, nella speranza che anche una sola foto scadente di una congregazione che parla in una Lingua ignota sia meglio di nessuna foto. Le foto della Parata degli Uccelli – quella era battista – sono state fatte su invito e sotto la direzione dell’ideatrice, Maude Thompson; non avrei mai osato interferire con le loro pose e l’unico rammarico è che, senza intervenire in modo ancora più pesante su qualcosa che era di per sé meraviglioso e originale, sarebbe stato impossibile scattare le foto durante la parata stessa.
Infine, anche se per me vengono per prime, ho incluso alcune istantanee di ritratti: in quel caso i soggetti fotografati erano perfettamente consapevoli e guardavano dritti nell’obiettivo. L’unica di loro che già conoscevo era Ida M’Toy, una meravigliosa eccentrica che per tutta la giovinezza e fino alla mezza età aveva fatto la levatrice e da vecchia si era inventata un’altra attività nella vendita di abiti usati. Durante la Depressione il suo commercio andava a gonfie vele. Lei voleva essere fotografata e voleva che la foto la riprendesse nella sola e unica posa capace di dire al mondo che i più insigni cittadini di Jackson erano “nati dentro quella mano”.
Fu con grande dignità che tanti altri personaggi ritratti accettarono di essere fotografati, perché, spiegarono, quella era la prima foto della loro vita. E questo mi permise di dare loro qualcosa in cambio, e anche se era possibile che quella foto rappresentasse per quegli uomini, donne e bambini segnati dalla povertà un triste souvenir, sono quasi sicura che non fosse così triste per loro, non necessariamente triste, no. Qualunque cosa si possa pensare di quelle vite, simbolo di tempi duri, per gli esseri umani che le hanno vissute significavano molto di più. Se ho scattato una foto dopo l’altra solo per una sorta di euforia e per la gioia di essere viva, che è il modo in cui ho cominciato, posso aggiungere che nei miei soggetti ho trovato spesso la stessa euforia, la stessa gioia. L’afflizione, anche quando rasenta il disastro, ha il suo territorio, e queste ribellioni dello spirito sovente lo scavalcano, la gioia come il coraggio.
Nello scattare tutte queste foto ero assistita, ora lo so, da un angelo – una presenza su cui contare. In particolare, è possibile che le fotografie dei neri fatte da un bianco non testimonieranno più per un bel pezzo tanta intimità. È la fiducia, più che quegli anni svaniti, a datare queste immagini, adesso. E io non mi vergognavo, in quanto bianca, del possibile messaggio latente nelle mie foto dei neri? No, ero troppo presa a immaginarmi nelle loro vite per essere aperta a una qualunque generalizzazione. Con le mie foto non volevo accusare nessuno, non volevo dimostrare né negare niente, non più di quanto volessi fare del male alle persone ritratte, o mi aspettassi del male da loro.
Forse a questo punto dovrei ammettere apertamente un fatto paradossale. Se è vero che ero nella posizione migliore per scattare quelle foto, ero però piuttosto bizzarramente equipaggiata per farlo. Venivo da una famiglia solida, privilegiata, relativamente felice che, fino all’epoca della Depressione e della morte prematura di mio padre (eventi che ci colpirono nello stesso anno) era stata piuttosto benestante per gli standard di una piccola cittadina del Sud e per quelli del nostro stile di vita tranquillo. (Per i poveri del Mississippi è tragico pensare quanti pochi soldi ci volessero lì per avere le cose fondamentali). Io avevo ricevuto una buona educazione umanistica (in Mississippi, nel Wisconsin e a New York) e per darmela i miei genitori si erano sacrificati. Ero brillante negli studi e quando a ventun anni tornai a casa uscivo dalla specializzazione in Business della Columbia Graduate School – pronta, pensavo, a guadagnarmi da vivere – ma di come si vivesse nel mondo ero assolutamente ignara. E nemmeno sapevo di esserlo. L’ultima cosa che avrei sospettato di me era di essere tanto ignara di tutto. Comunque, ero pronta a lasciarmi stupire.
La macchina fotografica che puntavo davanti a me poteva essere la protezione di una persona timida, cosa in cui non vedo niente di male. Era un occhio, anche se non proprio il mio, un occhio più rapido e imperturbabile – che dove guardava non poteva vedere il dolore, né procurarne, anche se non poteva neppure cogliere l’effervescenza, il colore, la caducità, la gentilezza o quello che non c’era. Ad ogni modo era quello che usavo e che, come ogni strumento, usava me. Soltanto dopo essere tornata a casa, aver stampato le mie immagini in cucina e averle lasciate asciugare durante la notte, da sola, al mattino me le guardavo e cominciavo a vedere con una certa obiettività quello che avevo ottenuto.
Quando la faccia eroica di una donna, come quella col golf abbottonato che penso debba aprire questo libro, rispondeva al mio sguardo dalla foto, ciò che mi colpiva e che mi colpisce oggi, proprio come la prima volta, non è la Depressione, non i Neri, non il Sud, e nemmeno la condizione di perenne miseria del mondo intero, ma la storia della sua vita su quel volto. E anche se non le ho scattate per dimostrare nulla, penso che quelle foto dimostrino senza dubbio qualcosa, e che questo sia assai più importante. La sua faccia per me è piena di significato, è più vera e più terribile e, ritengo, molto più nobile di quello che mi potrebbe dire oggi o a cui mi potrebbe preparare oggi qualunque generalizzazione sulla gente. Ho imparato dalle mie stesse foto, una dopo l’altra, e lo dovevo fare; perché credo che siamo noi stessi a darci le lezioni più dure.
Ho imparato alla svelta quando scattare, ma più lentamente ho capi to la verità del narratore: la cosa che aspetti, quella per cui devi arrivare in tempo, è il momento in cui la gente si rivela. Devi essere pronto, dentro di te; devi riconoscere il momento quando lo vedi. I volti e i corpi umani sono eloquenti in sé, e ostinati e ribelli, e un’istantanea è l’apparizione di un momento (come un racconto può essere uno sguardo lungo, una contemplazione che va crescendo) di ciò che non si ferma mai, non smette mai di dire per sé qualcosa del nostro comune sentire. Ogni emozione aspetta il gesto che la esprimerà. Un gesto che, quando si compie, si rivela in fin dei conti, del tutto imprevedibile.
Accettiamo come possiamo la nostra permanente esposizione al mondo, e usiamo tutti gli espedienti possibili per sopravvivere. Ma alla fine, naturalmente, ciò che sappiamo dipende dal rapporto tra noi e ciò che ci vediamo accadere intorno. Certo l’esposizione è essenziale, ma la riflessione è ancora più essenziale. La comprensione profonda non si verifica spesso là per là, con un clic, come un’istantanea fortunata, ma viene più lentamente, quando è il suo momento, e da dentro, solo da dentro. Il riconoscimento più acuto – quello che trabocca di compassione oltre che di violenta emozione – è una forma di visione umana. E questo ovviamente è un dono. Lottiamo col dolore e con l’oscurità solo nella speranza di ricevere quel dono, e continuiamo a lavorare senza sosta pregando di conservarlo.
Quanto a me, la piena consapevolezza di quello che volevo scoprire degli uomini e delle loro vite l’ho dovuta cercare per un’altra strada, nella scrittura delle loro storie. Ma un giorno lontano, lassù nella contea di Tishomingo, questo sapevo, comunque: che il mio desiderio, costante e appassionato, non era di puntare l’indice e giudicare, ma di scostare una tenda, quell’invisibile tenda d’ombra che cade tra la gente, il velo di indifferenza alla presenza dell’altro, alla meraviglia per l’altro, per la nostra condizione umana.
Traduzione di Maria Baiocchi
Eudora Welty, L’intervallo degli imballatori di pomodori, Copiah County, Mississippi, USA, 1936