Dal nostro archivio PRIMA DI SCRIVERE Fotografie di un ragazzo di J.M. COETZE
Pubblicato il : 18/02/2025 10:52:20
In questo numero di Tank, Ricordando la fotografia, l'intervista a J.M. Coetzee di Hermann Wittenberg del 13 marzo 2017, offre uno sguardo intimo e riflessivo su come la passione per la fotografia di J.M. Coetzee, abbia influenzato non solo la sua arte visiva, ma anche il suo approccio alla scrittura e alla vita.
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Ricordando la fotografia
13 marzo 2017
Come è arrivato alla fotografia? È stata sua madre, la fotografa di casa, la sua prima insegnante? E che macchina usava?
Mia madre aveva comprato una fotocamera a cassetta prima di partire con suo fratello per il viaggio in Europa, forse nel 1936. L’Europa che vide è rimasta fissata nelle fotografie che dopo incollò in un album. Poi, dopo l’arrivo dei suoi figli (1940, 1943), documentò la loro crescita, cosa che col tempo produsse altri album. Dunque fotografare faceva parte della cultura della nostra famiglia, come del resto di tante famiglie del ceto medio. Attraverso quegli album le famiglie si costruivano una loro storia, un passato.
Mi interessano gli anni in cui comprò un ingranditore e si costruì la camera oscura. Ha dedicato molto tempo (e risparmi) alla fotografia. È stato allora che ha acquistato la Wega 35mm? Che cosa la attraeva tanto nella fotografia e la induceva a seguire quell’hobby con tanta determinazione?
Comprai la mia prima macchina fotografica per posta. Era una novità, presentata come il tipo di macchina che usavano le spie. Produceva immagini di circa 15 mm x 15 mm che andavano ingrandite. A Città del Capo c’era un solo negozio che vendeva quelle pellicole speciali. La Wega mi costò circa quaranta sterline, molto meno della Leica di cui era una copia. L’acquisto della Wega e dell’attrezzatura da camera oscura segnò il momento in cui cominciai a fotografare “sul serio.” Che cosa fu ad attirarmi? Non posso essere io a diagnosticare le ragioni profonde. Diciamo solo che negli anni Cinquanta la fotografia “seria” godeva di notevole prestigio culturale. Ed era anche un’attività maschile, a differenza di quelle “effeminate” tipo scrivere poesia o suonare il piano.
Durante gli anni al St Joseph si era iscritto a un circolo fotografico. Era un’associazione scolastica? Potrebbe dire di più su quelle attività, i concorsi e le mostre cui prese parte?
Ero io il motore del circolo fotografico del St Joseph. Per un certo periodo la fotografia divenne una vera mania in quella scuola, poi fu sostituita da una qualche altra mania. I Fratelli ci permettevano di usare la stanza dove tenevamo il materiale fotografico come camera oscura. Potevamo anche disporre di una bacheca su cui appuntare le nostre foto. Organizzammo un concorso e invitammo uno dei Fratelli a giudicare le foto presentate.
Scattava molto, a scuola, in occasione di eventi sportivi ma anche in occasioni formali, tipo quelle in cui si faceva la foto di classe. In quei casi il suo ruolo era in qualche modo autorizzato, era riconosciuto come il fotografo di scuola? Nella biografia di Kannemeyer, il suo amico, Nic Stathakis, racconta anche che scattava di nascosto, foto rubate, da “spia”. Ci può dire di più su questo? Evidentemente usava la sua Wega, ma utilizzava anche una macchina più piccola e discreta.
La macchina più piccola era la cosiddetta microcamera-spia. La scuola si rivolgeva a un fotografo professionista per le foto di classe e simili. Le mie attività e quelle di altri membri del circolo fotografico erano tollerate piuttosto che autorizzate.
I soggetti di tante sue foto – paesaggi di Città del Capo, vita domestica e attività scolastiche – non sono di per sé speciali, ma tante di quelle immagini rivelano attenzione alla composizione e consapevolezza tecnica di come scattare in condizioni difficili (per esempio verso la fonte di luce, o al buio, cogliere rapidi movimenti). C’è creatività e sperimentalismo e il tentativo di superare i limiti in quelle foto. E poi ci sono parecchie immagini accuratamente composte, ma la maggior parte delle foto sembra scattata all’improvviso, in modo estemporaneo. Ci può parlare del suo approccio al mezzo?
Leggevo libri sulla fotografia e mi sforzavo di imitare al meglio il tipo di foto che vedevo su Life e altre riviste. Credo che a interessarmi fosse la possibilità di essere presente nel momento in cui la verità si rivelava, un momento che in parte si scopre e in partesi crea. Credo fosse questa la poetica dietro il lavoro di fotografi come Cartier-Bresson. Quello che avrei scoperto dopo, purtroppo, nel corso del tempo, è che non avevo l’occhio dell’artista-fotografo. Per un po’ mi dissi che dipendeva dal fatto che non fotografavo abbastanza: i fotografi dei quali leggevo usavano tranquillamente un intero rullino da 36 pose per uno stesso soggetto, mentre io dovevo razionare gli scatti. Ma la verità è che io non ero abbastanza aperto al mondo, in particolare all’esperienza degli altri. Ero troppo chiuso in me stesso. Che a quell’età non è inusuale.
Una “Opinione” in Diario di un anno difficile parla dell’aria braccata di Samuel Beckett davanti all’intrusione del fotografo. Una delle caratteristiche notevoli di tante delle sue foto è che sembrano scattate senza che la persona si renda conto di lei e della fotocamera. O comunque senza mettersi in posa. Era questo il modo in cui aveva deciso di fotografare?
C’è bisogno di una certa dose di narcisismo innato per esibirsi sotto lo sguardo dell’obiettivo.
In molti suoi romanzi ritorna con forza il discorso della fotografia, da Terre al crepuscolo (le 24 immagini di atrocità di guerra da cui è affascinato Eugene Dawn) a Slow Man, il cui protagonista era fotografo di professione. In che modo la fotografia e il suo profondo coinvolgimento in questa tecnica ha formato il suo modo di vedere il mondo, e in seguito di scriverne? È una domanda impegnativa, lo so, ma in che modo la fotografia ha reso possibile la costruzione dei romanzi?
I segni della fotografia (e del cinema – ai fini di questo discorso le due forme non vanno distinte) sono in tutta la mia opera, fin dall’inizio (“Progetto Vietnam”). Non sta a me ricostruire il quadro.
Didascalie:
Ho fotografato quegli sconosciuti mentre sfrecciavano (sulla strada per il Rhodes Memorial) muovendo la fotocamera per seguirli: lo sfondo risulta mosso © 2020 J.M. Coetzee e Cossee Publishers
Mia cugina, Valmé Coetzee © 2020 J.M. Coetzee e Cossee Publishers
David Coetzee © 2020 J.M. Coetzee e Cossee Publishers