Dal nostro archivio: Dalla terra dei miracoli di Wendy Sue Lamm

Pubblicato il : 30/11/2023 12:58:25

Nel 2005 abbiamo pubblicato il libro "Dalla Terra dei Miracoli" di Wendy Sue Lamm, una grande fotografa israeliana che voleva dare il suo contributo alla difficile e irrisolta questione israelo-palestinese. Un piccolo capolavoro che vogliamo riproporvi in questi tempi che lo rendono ancora, terribilmente, attuale.

"La Terra Santa dei Miracoli e la sua capitale Gerusalemme, sacra a ebrei, cristiani e musulmani, sono intrappolate in una maglia sempre più stretta di violenze e nell'effimera promessa della pace. Il conflitto ha qualche momento di pausa quando, superando mille difficoltà, si riesce a ridere assieme della nostra comune follia. E a usare questo slancio ironico per cambiare direzione. Se una tale opportunità non viene colta, la violenza si acuisce trasformandosi in farisaica celebrazione di se stessa e svuotando le vite in essa coinvolte. La violenza allestisce un palcoscenico che gli estranei potranno guardare corrucciati, dall'alto in basso, seduti nelle loro comode e distanti poltrone: un giudizio imposto dalla particolare prospettiva di ognuno. Ma un momento di opportunità redento può permettere la realizzazione di un miracolo".

Wendy Sue Lamm



    

Oltre alle immagini e alle parole dell'autrice, il libro contiene anche un poema dello scrittore israeliano Arthur Miller e un racconto dello scrittore palestinese Emile Habibi.

 

Aspettando il Maestro

di Arthur Miller

 

 

I morti ebrei li so immediatamente

so il loro trauma di andarsene da soli;

vedo le donne ebree nell’esplosione

che si guardano indietro nei secoli

mentre la risata dei Goyim frusta l’aria; 

tutto questo io vedo quando sento lo sparo. 

Ai morti arabi ci debbo pensare, 

perché la loro morte mi possa colpire.

Devo istruire il mio cuore sul loro modo di soffrire.

E scrutare nei secoli, ascoltare

il riso d’Europa e il suo disprezzo.

Tutto questo lo so quando ci penso.

Se vuoi avere la giustizia la devi volere,

invitarla a entrare dal deserto

dove si aggira come un profeta

disprezzato per le sue intenzioni pacifiche

in tempo di guerra.

Perché il cuore sa se è il suo sangue a pulsare.

Quella sera carica di neve del 1948 

al pranzo del Waldorf per celebrare

il riconoscimento della Russia,

unica nazione allora a riconoscere Israele,

aspettavamo Gromyko.

Le nove - e il terrore silenzioso

che il capriccioso Stalin avesse cambiato idea.

Le nove e un quarto - e niente Gromyko.

Catastrofe! E improvvisamente eccolo

avvolto in una nuvola ronzante di reporter:

“Questa massiccia nevicata” spiegò

“Non riuscivamo a muoverci”. E l’arguto 

reporter: “Ma come? Un russo di certo

conosce la neve”. E lui senza esitazione:

“Sì, ma da noi è molto migliore

la distribuzione”. Rise Israele: l’arcigno russo

aveva sense of humor…

Che sollievo per gli ebrei!

Tutto sarebbe cambiato. “Ora ci sarebbe stato

l’autista ebreo, il poliziotto ebreo,

lo spazzino ebreo, l’ebreo contadino,

e il netturbino, il primo ministro

e la puttana ebrea, perfino.

Pensate un po’! Gente normale in un paese

normale, a tutti gli altri uguale.

E in quei pochi acri di sabbia sarà fatta Giustizia!

I lunghi secoli spogli, le vite d’ombra,

di ebrei nell’ombra, i loro sorrisi affranti.

Ma ora vendicati, i pezzi degli ebrei

ricombinati, uomo, donna, bambino

diventati, come ognuno, come nessuno.

Da dove viene questo potere nuovo d’Israele?

Se non dalla Giustizia che qui s’è armata?

Con quale sollievo e quale ammirazione,

la cattiva coscienza del mondo

ha visto i violini e il nuovo cannone

e ha lodato la Fenice Israele, Nazione

dal nobile cuore, votata alla pace totale.

L’applauso si era spento.

Tosse secca tra il pubblico.

Odore polveroso di noia compita.

Sguardi vitrei sull’orologio

Mentre due masse ferventi, sfidando

Le leggi della fisica, si gettano sullo stesso 

Spazio sacro. Avendo già visto questo spettacolo,

Quello in cui ognuno ha ragione

E a tutti tocca dividere il torto

Il pubblico nota che attori diversi in altri luoghi

Hanno sparato la pallottola sfasciasperanze

Nella schiena del leader visionario che si accascia,

Ma qui scopre qualcosa di nuovo -

Il ghigno beato, benedetto, del killer

Al sublime consenso dei santi uomini

Qualcosa di sterile che scende come un gas

Dissecca ogni sguardo che non sia d’acciaio

La mente irriverente, che un tempo rischiava

il tutto per tutto, è screditata da scherno e minaccia

E niente è più vero,

Solo gli autobus squarciati, le donne senza braccia

I neonati insanguinati e gli stivaloni neri dei soldati.

Che volano per aria. Da questa stessa sabbia

Dove la fratellanza degli uomini per la prima volta

È stata dichiarata,

s’alza una nebbia, la deplorevole confusione del potere,

da ogni parte lo sdegno del capo è riesumato.

Le loro omissioni che tutti notano

E a cui nessuno crede, tranne i fanatici

La ben nota caduta delle grandi speranze.

Perché Israele prima era giusta e nutriva grandi sogni,

e ora che si è appena unita al resto del mondo

una nazione come tutte le altre

il pubblico si guarda il polso

mentre gli antagonisti sulla scena ripetono

la vecchia storia delle uguali rivendicazioni

il non detto è sempre la verità;

chi osa chiamare il Maestro dal deserto,

e impara a vedere nell’umiliazione dell’altro

la propria!

Il cuore per istinto sa meglio il proprio sangue,

ma è tutto qui quello che può sapere un cuore?

Chi leggerà il silenzio del cuore glaciale

Dove dormono i semi sepolti della speranza?

Ora invece arrivano i mendicanti elettronici,

la banda ghignante dei cristiani sbarbati e incipriati

in marcia verso la gloria e così pieni d’odio

da accusare il presidente di aver ucciso un amico,

A predire il millenario Armageddo con tanto

di milioni di morti, ebrei di Israele soprattutto,

Alcuni dei quali emergeranno, però, scivolando sul sangue

A rivendicare il loro Gesù, confessando finalmente

il loro errore fatale e così salvando il mondo.

E questi (la disperazione di tanti americani)

Saranno abbracciati dal Capo di Stato in visita

La cui ebraica testa, appena ottenuta la vittoria,

Sicuramente continueranno a far circolare.

Dio, si dice, continua a parlare

Molto dopo aver scolpito la pietra. Parla

all’aria, forse, al rivo gorgogliante,

alla foglia tremolante. Loro ascoltano, così pare.

Da quello che il rivo ha sentito, e la foglia,

Sono venuti il cannone di Israele e i suoi violini.

Cosa sa il rivo

Di dimenticato?

Il potere di Israele prima era morale.

Dayan mi disse una volta negli anni Sessanta,

Se fossi arabo combatterei per gli arabi,

ma sono ebreo e combatto per gli ebrei”

Sembrava percepire i valori così come

gli interessi e faceva una buona impressione.

Per ottanta anni ho cercato

di diventare ateo e con l’aiuto

dell’Ortodossia alla fine ci sono quasi

riuscito. Saluto gli ebrei,

i cristiani, i musulmani, gli iraniani

e gli indù – tutti i loro assolutisti

nel nostro caro mondo – e li ringrazio per avere

sistemato la questione dell’esistenza di Dio

d’avere lasciato me in pace.

E perché un ateo si rivolge agli ebrei?

Forse perché abbiamo inventato la promessa,

e alla fine può succedere che noi

soli possiamo dire che è finita. Se così dev’essere

Quando diventa troppo facile essere ebrei

è ora di chiedersi dove si è sbagliato.

Chi aprirà i cancelli al Maestro,

E nell’umiliazione di un altro vedrà la sua?

Con tante guerre guidate dalle religioni,

I cancelli dell’autorità si apriranno mai

All’uomo pacifico che sta fuori nella polvere

Che non può entrare nella città se non è chiamato?

Nessuno è rimasto dall’altra parte per gridare

tra le sbarre del cancello – “Benvenuto!

Entra! Salvaci, caro Maestro!”

Perché se non lo chiami

Non verrà. Non ce la fa

A entrare pigramente in città;

Se non è chiamato da quelli che lo amano,

Rimarrà nella polvere vicino ai cancelli...

 

(Traduzione di Maria Baiocchi)




Un ultimo racconto: la storia del pesce che capiva tutte le lingue
 di Emile Habibi

Ciò che avvenne in quella serata autunnale sulla riva abbandonata di al-Tantura, è rimasto fino ad oggi un segreto di Stato ben custodito.
Ma, dopo tutto quello che è successo, in quel famoso giugno, non credo che ti impediranno più di rivelarlo.
Non so che cosa avranno registrato nei loro archivi sugli eventi di quella serata. Quanto ai miei ricordi di quel giorno, non ho dimenticato il più piccolo particolare. Ecco qua.
Ce ne stavamo in piedi davanti a quel rifugio in rovina dove dicevano che Wala si fosse nascosto con armi ed esplosivi. Ad un tratto Benrimasta disse:
— Lascia che gli parli io, sono sua madre; quando l'ho portato nel ventre, non portavo solo lui, la mia creatura, gli ho fatto portare anche il mio segreto e la mia speranza.
Mi misi da parte e mi sedetti su un muretto diroccato a fissare il mare calmo, ma non vedevo niente; guardavo il sole che tramontava e mi sentivo straniero.
Sua madre fece un passo e poi un altro verso il rifugio abbandonato, poi lo chiamò:
—Wala'! Wala'! Figliolo, non sparare, sono tua madre!
Ci fu un silenzio totale.
— È inutile resistere, ti hanno scoperto!
La sua voce ci giunse cavernosa dal profondo; parlava, come al solito, soltanto se costretto.
— Come?
— Sono loro che ci hanno condotto al tuo nascondiglio.
Non sono nascosto, mamma, ho preso le armi perché sono stufo di vivere nascosto con voi.
Ci fu di nuovo un fitto silenzio, finché la sua voce non ci tornò dalla profondità. Mi meravigliai che in quel petto potesse albergare una voce cosí profonda.
— Ehi donna, laggiù, chi sei?
— Sono tua madre, Wala', ma come, il figlio rinnega la propria madre?
— Mia madre, e viene con loro!
— Mi hanno portato qui insieme a tuo padre. Siamo soli, Wala'... e lui è qui vici-no, seduto sui resti di un muretto, in attesa di salvare ciò che gli rimane.
— E perché non parla?
— Non se la sente.
Allora per farmi sentire, feci un colpo di tosse.
—Perché sei venuta, mamma?
—Mi ci hanno mandato per convincerti a farti arrendere, e a farti venire fuori, cosí ti salverai la vita.
—E perché mai?
—Per pietà verso di me e verso tuo padre, dicono.
—Qah! Qah! Qah!
—Che fai, spari sul ventre che ti ha portato?
—Eh, no, sghignazzo. Ma lo vedi che ora si sono messi a parlare di pietà? Che cosa farebbero se alzassi il tiro?
Allora furono i soldati a schiarirsi la gola.
— Ma quelli non hanno pietà di nessuno, figliolo.
— Allora l'hai fatto per paura?
—Paura per te, Wala'.
Ci fu di nuovo un silenzio interrotto soltanto dalla risata di Benrimasta:
—Se fossimo liberi, figliolo, non saremmo in disaccordo. Tu non avresti preso le armi, né io ti avrei messo in guardia in continuazione. Il fatto è che noi ci diamo da fare proprio per arrivare alla libertà.
— Come?
— Come la natura opera per ottenere la propria libertà. L'alba spunta solo quando la notte è finita. E il giglio sboccia solo quando il bulbo è completa mente maturo. La natura detesta l'aborto, figliolo, e la gente non sopporterà ciò che stai per combinare.
E lo sopporterò io per loro, fino a quando ce la faranno.
— Figliolo, figliolo, che cosa c'è di più bello di quella rosa all'occhiello di un giovane? Ma la madre della rosa, domani, non la potrà piú nutrire. Lascia che ti stringa al petto.
Ripiombò in un silenzio interrotto solo dai suoi lamenti.
— Mamma, mamma, fino a quando dobbiamo aspettare che sboccino i gigli?
— Tu non aspetti, figliolo! Siamo noi ad arare, piantare e sopportare fino all'ora del raccolto.
— E quando sarà raccolto?
— Tieni duro!
— È tutta la vita che sopporto.
— E tu sopporta ancora...!
— Sono stanco del vostro servilismo.
— Abbiamo ragazzi e ragazze che non sono sottomessi. Fa' come loro. Hanno sopportato le notti più lunghe, hanno sostenuto il peso del sole col sudore della fronte. Li hanno potuti sradicare dalle loro terre, solo sbattendoli in pri-gione. E hanno distrutto la loro casa, solo dopo aver distrutto una leggenda.
Hai perso ogni speranza, figlio mio!
— Intorno a me vedo solo tenebre.
— Sei in una caverna.
— Tutta la mia vita è stata una caverna.
— Sei ancora un germoglio che deve sbocciare. Esci alla luce del sole!
— Dov'è il mio posto al sole?
— Sotto il sole. Il mondo va avanti, figliolo mio. Quanti popoli si sono conquistati la loro libertà? Quel giorno verrà anche per noi.
— Continui a sognare le sette isole dietro ai sette laghi?
— Sono le nostre isole, i nostri laghi.
— E anche Sinbad ha smesso di navigare e si è messo a cercare tesori nascosti a casa sua.
— Nel suo paese la vita era insopportabile.
— Quando la vita diventa più a buon mercato della morte, allora è più difficile trattenerla che lasciarla sfuggire.
— Mamma, e morirai senza che i tuoi siano tornati?
— Dì piuttosto prima che ritornino!
— E come?
— È questione di tempo. Da' tempo al tempo.
— Qah! Qah! Qah!
— Mi vuoi sparare? Ammazzi chi ti ha dato la vita?
— Sarà il tempo a uccidere chi mi ha partorito, come ucciderà me.
— Non scherzare sul tempo, Wala'. Senza il tempo non spunterà nessuna pianta per — nutrirci, né sorgerà il sole dopo il tramonto...
— Ma è arrivato quel tempo?
— Arriverà. Senza il tempo nessun prigioniero uscirà dalla sua cella.
— Ma ne uscirà mai?
— Uscirà. Non si compie un'esperienza senza che la gente ne tragga una lezione.
— E che lezione ne ha tratto?
— Vuoi che una sola generazione risolva tutto?
— Sí, la mia!
— E perché?
— Perché è la mia.
— E con quali armi combatterà la tua generazione?
Di nuovo un silenzio di piombo.
Alla fine sentii che lei gli faceva un'altra domanda, con lo stesso tono con il quale, quando era piccolo, gli chiedeva di baciarla:
— Wala', ma adesso, che armi hai tra le mani?
— Un vecchio mitra che ho trovato nel forziere.
La vidi precipitarsi verso il rifugio a bocca spalancata, con le braccia aperte come le ali spiegate di un uccello che torna al nido per proteggere i suoi pic-coli. Stava per scomparire in quell'antro buio, quando Wala' le gridò qualcosa, che la fece raggelare là dov'era.
— Avanzano dietro di te, mamma; li vuoi proteggere con il mio amore?
— No, Wala', figlio mio! Sono io che voglio venire da te. Nel forziere c'è un altro mitra, così proteggerò te con il mio amore.
— Era appena sparita alla mia vista, che ci fu una grande confusione. Non distinguevo più le sagome che si precipitavano di qua e di là, e che mi avevano lasciato da parte. Non sentivo che urla soffocate e ordini dati a voce rauca.
— Facevo un passo avanti e uno indietro, giravo su me stesso e sentivo insulti che però non erano rivolti a me.
— E come in un sogno, le stelle scomparvero e la luna impallidi, mentre li vedevo precipitarsi verso il mare; sentii un tonfo seguito da spruzzi e qualcuno che diceva:
— Si sono tuffati qui!
E un altro ancora:
— Da questa parte!
Non vedevo il Grande ma sentivo la sua voce che diceva loro di non sparare e li incitava a tuffarsi.
Non ero presente quando fecero arrivare i fari e i sommozzatori. Il mio maestro Va°qub, che era comparso al mio fianco, mi prese per un braccio, mi caricò in macchina, e mi condusse nella mia casa vuota.
Il giorno dopo mi venne a trovare e mi ordinò di mantenere il segreto su tutto quanto era successo. Sarei stato perdonato, e sarei ritornato al lavoro.
— Dopo che li avete ammazzati?
Ma lui mi informò, mentre io oscillavo tra lo stupore e l'incredulità, che tutti e due erano riusciti a scappare senza lasciare alcuna traccia.
Disse che erano stati visti dirigersi verso il mare, madre e figlio: lei che lo abbracciava e lui che la reggeva; poi erano scomparsi dentro il mare. I soldati erano stati colti di sorpresa, il Grande aveva proibito di sparare, per non far diffondere la notizia, e anche perché era sicuro che li avrebbero presi, oppure che sarebbero annegati. Comunque le ricerche, continuate per tutta la notte e il giorno successivo, non portarono a nulla, non li presero vivi né furono scoperti i loro cadaveri. Il loro destino è rimasto un mistero. E Ya'qub aggiunse:
— E tale deve rimanere: segreto di Stato.
Ya'qub negli ultimi giorni, si prendeva particolarmente cura di me. Ma io non volevo fargli scoprire quello che sapevo sulla grotta sottomarina. Pensavo che era là che loro due avevano deciso di morire.
Piú di una volta pensai di andare a chiarire questo punto, ma non me la sentivo, poiché avevo un barlume di speranza che fossero ancora vivi, e non volevo spegnerlo.
Andavo sulla spiaggia di al-Tantura che ormai era piena di bagnanti, e mi sede-vo, come faceva Wala', sul suo scoglio in riva al mare; buttavo la lenza e lo chiamavo col cuore, supplicandolo di rispondermi.
Quando una volta, senza che ci facessi caso, un bambino ebreo si sedette accanto a me, mi sorprese con la seguente domanda:
— Ehi, «zio», ma in che lingua parli?
— In arabo.
— Con chi?
— Con i pesci.
— Ma i pesci capiscono solo l'arabo?
— I pesci grandi, quelli vecchi, quelli che erano qui quando c'erano gli arabi, quelli si!
— E quelli piccoli capiscono l'ebraico?
— Capiscono l'ebraico, l'arabo, e tutte le lingue. I mari sono immensi e comunicano fra loro, non hanno confini e c'è spazio per tutti i pesci.
— Accipicchia!
Suo padre lo chiamò e il bambino corse verso di lui. Li sentii chiacchierare e feci loro un gran sorriso. Il bambino mi aveva scambiato per re Salomone e i due gesticolavano facendo segno verso me. Il padre sorrise, e si avvicinarono. Ero diventato talmente grande agli occhi di quel bambino, che insistette per restare con me. Gli diedi un pesciolino che avevo pescato. Il bambino gli parlò ma il pesce non rispose, allora gli dissi:
— È ancora troppo piccolo.
Al che il bambino lo gettò in mare perché diventasse grande e imparasse a parlare. Cosí mi dissi: «Se tutti potessero restare bambini, Wala' non sarebbe cresciuto e non si sarebbe perso. E il Grande, una volta, non è stato bambino anche lui?».
Dopo di che ho tirato avanti per mesi e mesi, sicuro che mi sarebbe giunto un segnale da loro. Ogni volta che qualcuno bussava alla porta, mi alzavo di scatto con il cuore in gola: «Forse sarà da parte loro».
Quando sentii che tra le brigate dei fedayn ce ne era una con il nome di al-Tantura, presi l'abitudine di chiudere la finestra e di buttarmi sul letto tenendomi stretto il mio transistor.
Così fino al cinque giugno del 1967, quando, in quella lunga notte, senti una voce che sbraitava dal basso:
— Spegnere la luce, spegnere la luce!
La spensi, ma non riuscii a dormire.


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