Dal nostro archivio: Consigli di un fotografo viaggiatore

Pubblicato il : 15/07/2024 16:05:06

Un piccolo manuale sull’uso della fotografia come strumento di scambio e di conoscenza, sull’insaziabile passione per il viaggio, sul coraggio di seguire le proprie passioni: Olivier Föllmi racconta in Consigli di un fotografo viaggiatore il suo percorso artistico, il suo modo di lavorare, la capacità sviluppata negli anni di entrare in contatto con culture lontane e di preparare professionalmente e spiritualmente i suoi viaggi. Per voi un estratto del volume tratto della sezione Cammino di vita.


   

Cammino di vita
Il mio lavoro fotografico è in controtendenza rispetto ai media che puntano solo sugli eventi violenti. Per ottenere la pace è necessario diffondere uno spirito di pace, questo per me è l’unico modo di affrontare i problemi. Il mio intento è valorizzare gli uomini e le donne dignitosi che incontro, che ci fanno amare l’umanità che essi stessi costruiscono con umiltà, in pace. Le mie fotografie sono il mio contributo alla pace nel mondo.
Per fotografare, talvolta cammino ore per raggiungere una cresta e trovare una vista che mi soddisfi. Poi aspetto ancora per ore la luce giusta: una foto riuscita dipende dal tempo che le si dedica. Amo quei lunghi momenti di marcia, di attesa e di speranza, che mi permettono di entrare in comunione e di ricevere l’immagine come una grazia. Quando alla fine, nell’attimo divino della confluenza dei tre “gioielli” – luogo, luce e soggetto – premo il tasto per scattare, provo un sentimento d’amore.
Ho l’impressione di penetrare nell’essenza stessa del mondo. L’occhio incollato al mirino, mi dispiace lasciare questo spazio di pienezza dove si ritrovano tutte le verità per fare ritorno alla realtà del vento, del calare della notte, delle persone intorno a me. Quando ho la fortuna di vivere un incontro simile, fotografando una persona, mi capita di avere le lacrime agli occhi nel momento in cui rialzo il viso. Così come alla persona che fotografo. Intravedo in quei momenti di profonda serenità un’infinitesima particella di uno spazio inalterabile, quello in cui i monaci si immergono grazie alla meditazione. All’inizio della mia vita da viaggiatore, nella mia ricerca della verità, ho pensato di farmi monaco. Ho scelto la Via di mezzo, ho scelto di diventare fotografo per la pace.
Quello che mi interessa della mia fotografia non è il risultato, ma l’incontro trascendente che mi riempie. L’alchimia della materia non mi appartiene, l’immagine neanche. Essa è in embrione nella pellicola in fondo alla borsa fino allo sviluppo per schiudersi davanti allo sguardo degli altri. Se quell’immagine li colpisce, per una bellezza che supera l’apparenza, è perché li conduce nelle grandi profondità della vita o nelle alte sfere della Vita, laddove non c’è più alto o basso. L’emozione di una foto sorge da uno spazio inesistente, germoglia da un incontro e deve potersi espandere liberamente e generosamente. Questa foto unisce chi la dona e chi la fa, chi la trasmette e chi la contempla.
Essere fotografo viaggiatore significa essere traghettatore di incontri e di emozioni. Amo la fotografia da ricevere, restituire e condividere. Il mio materiale essenziale
è una borsa da prestigiatore. Quando arrivo in un villaggio, non porto mai la macchina fotografica appesa al collo, resta nello zaino. Mi riposo in mezzo al villaggio e, quando un bambino si avvicina, gli faccio qualche gioco di prestigio. Poco per volta, le persone del villaggio mi vengono intorno e ci divertiamo tutti insieme. Mi piace la magia come linguaggio che fa a meno delle parole e parla a tutte le generazioni. Permette di offrire subito qualcosa di semplice, meraviglioso, a persone dalla vita spesso abitudinaria, priva di distrazioni. Dopo aver esaurito tutti i trucchi, che mi hanno chiesto di ripetere almeno dieci volte, inizio a pensare di scattare. Le foto diventano così il prolungamento della magia, il seguito del mio spettacolo. Per questo, con i miei assistenti, tiriamo fuori spesso accessori inutili: riflettori e sfondi, semplicemente per arricchire la scenografia del mio teatro. Tutti desiderano prendere parte alla rappresentazione sul palcoscenico del villaggio! La magia e la fotografia sono per me pretesti di scambio. Mi permettono di essere nel cuore della vita.

 
Sognare e volare via
Da bambino, divoravo tutti i racconti di viaggio, vecchi e nuovi, di traversate oceaniche, di campi base, di tempeste e ascensioni, di scoperte abissali, di viaggi a dorso di cammello nei deserti, di conquiste dello spazio. Ero pervaso dallo spirito dell’avventura. Dato che i miei genitori non avevano alcuna possibilità di farmi cambiare idea, mi hanno sempre lasciato libero di issare le vele a qualunque brezza mi chiamasse al largo. A dieci anni, ho fatto un corso di vela in Bretagna. Poiché ero troppo giovane per essere ammesso nel pensionato, stavo da solo nel camping municipale. A dodici anni, ero al festival dell’Isola di Wight. Ero troppo giovane per essere hippy, ma la voce di Joan Baez mi sconvolgeva. A quattordici anni, mi congelavo seriamente i piedi, facendo il giro del Monte Bianco con gli sci insieme a mio fratello. A quindici, arrivavo al circolo polare, in primavera, per percorrere il sentiero reale in Svezia, facendo l’autostop per tre giorni su un’autostrada tedesca, con gli sci di fondo in mano. A diciassette, in Afghanistan, il viaggio diventava il mio unico padrone.
Andavo in Afghanistan con alcuni amici di Ginevra per scalare una cima inviolata. Affascinato da quel paese, partii un mese prima di loro per percorrere la pista del centro in camion, a cavallo, su un carro, a piedi. Avevo letto molto sull’Afghanistan, che amavo ancor prima di arrivarci, e avevo l’innocente speranza di integrarmi vestendomi come un afghano. Appena arrivato a Kabul, il mio primo giorno di viaggio, andai al bazar per comprarmi un turbante e una tunica afghana. Scelsi un turbante bianco e ne chiesi il prezzo: “Non te lo vendo”, mi disse il venditore adombrato. “Ah! Perch
é?” “Perché non hai tirato sul prezzo”. Per inesperienza, ero stato maleducato: non mi ero dato la pena di sedermi e di discutere… Vendere il suo turbante a un prezzo più o meno alto non interessava minimamente al venditore. Era contento della sua vita sobria: per lui era essenziale la contrattazione. Mi sono seduto e ci siamo presi un tè. Abbiamo parlato un’ora, della mia vita, della sua. Poi abbiamo cominciato a mercanteggiare, prendendo altro tè sul kilim, circondati da una miriade di turbanti. Ho comprato il mio vestito e ci siamo lasciati come due amici. Dal fondo del bazar polveroso, quel venditore aveva posto le basi del mio mestiere di fotografo: trovare un pretesto per scambiare con gli altri.
Quando partii per l’Afghanistan, volevo fare la guida di montagna. Sognavo sfide e conquiste. Quando, al mio ritorno dalla pista del centro, ritrovai gli amici per la nostra spedizione, non ero più divorato dalla passione per l’alpinismo, ma da quella per il viaggio. La scalata al campo base con i carovanieri equipaggiati con fucili e cavalli addobbati con ponpon rossi mi colpì nel profondo. In dieci giorni di marcia, risalimmo la vallata impervia del Panchir di villaggio in villaggio. Mi piaceva stare accanto alla montagna, ma scalarla aveva meno senso che risalire i colli a piedi per raggiungere i villaggi, alla scoperta di uomini isolati. Questa esperienza mi permise di trovare la maniera di viaggiare che più mi corrispondeva, poi adottata per i vent’anni successivi.
Ritornato in Europa per guadagnare un po’ di soldi, ne ripartii a diciott’anni ossessionato dall’idea di fare il giro del mondo. Conoscevo a memoria la carta del globo, avevo studiato tutti i paesi che mi attraevano, avevo disegnato il mio tragitto, dall’Europa all’Asia e all’America. Strada facendo, ho raggiunto l’Afghanistan, il mio “primo amore”. Poi il Nord del Pakistan, il Ladakh e il Nepal che ho percorso a piedi. Non sono andato al di là nel mio giro del mondo. L’Himalaya mi ha posseduto. Ci sono rimasto per costruirvi la mia vita.
E tu, amico viaggiatore, dove desideri andare per cominciare?
Dirigiti verso il continente la cui musica ti chiama, la cui cultura ti ispira e fermati nel paese dove ti sentirai a casa. Ritorna due volte, dieci volte nel tuo paese d’adozione. Forse ci andrai a vivere? Non ti imporre dei limiti, lascia aperte tutte le porte. Parti come un bimbo incantato e lascia che il viaggio ti porti per mano: il primo sconosciuto da scoprire sei tu stesso! Approfitta del viaggio per perdere colui o colei che pensi di essere. Dimentica quello che hai imparato, diffida delle tue certezze, molla gli ormeggi, lasciati sorprendere! Parti nudo, osa fare il mendicante: il viaggio ti offrirà abiti nuovi. Rivelerà in te ricchezze che neanche sospettavi. Tornerai senza un soldo, ma sarai ricchissimo.

   


Didascalie: 

Preparazione alla prima invernale nello Zanskar. 1980 © Danielle Föllmi
Partenza in trekking a Kathmandu. 1978 © Dominique Thorens
Vita di famiglia a Dharamsala. India, 1992 © Danielle Föllmi
Scrittura del libro Deux hivers au Zanskar. Alpi, 1982 © Danielle Föllmi
Con mio figlio Yvan Tséring. 1994 © Danielle Föllmi
Stanchezza durante l’ascensione del Minya Kongka (7556 m).© Ang Pfurba Sherpa

 

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