Conversazioni: Emanuele Coccia intervista Donna Haraway

Pubblicato il : 18/12/2023 12:26:21

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Donna Haraway, nel suo Manifesto delle specie compagne, libro della collana Tracce, sostiene che  il cane e l’essere umano sono di fatto due facce della stessa medaglia evolutiva e se la loro, come scrive, è una relazione “piena di sprechi, crudeltà, indifferenza, ignoranza, perdita”,  è anche fatta  di “gioia, invenzione, lavoro, intelligenza e gioco”. 

In un dialogo con Emanuele Coccia, Donna Haraway ragiona su questo lavoro, sui legami evidenti con il precedente Manifesto del Cyborg e su quanto un approccio femminista sia importante anche per affrontare il rapporto tra partner diversi: “ci vogliono le pratiche di cura e l’attenzione che le donne hanno condiviso e insegnato agli altri per abitare insieme a quanti  non hanno forma umana”. Questa intervista è apparsa su Sette, settimanale del Corriere della Sera, il 24 novembre 2023.

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Emanuele Coccia: Nel “Manifesto”, lei scrive che "la scrittura sul mondo canino è un ramo della teoria femminista”. Perché dobbiamo parlare o scrivere di cani per diventare femministi?
 
Donna Haraway: È una battuta, ma una battuta seria: ci vuole un’attenzione tutta femminista per abitare il mondo insieme a coloro che vivono con noi e che non hanno forma umana, prendersi cura e imparare a prestare attenzione di essi, avere a che fare con il mondo nella sua violenza, nelle sue conquiste, nel suo possibile futuro - un futuro ancora possibile. Non parlo di prestare attenzione solo alle donne, o altre sciocchezze di questo tipo: parlo del tipo di pratiche di cura e attenzione che le donne hanno condiviso e insegnato agli altri, come parte della convivenza con altri esseri umani, compresi i cani. Non parlo dei cani in generale, ma dei cani nel loro specifico essere al mondo, compresi i cani-compagni nel senso di animali domestici. Le specie compagne sono molte di più che i cani: sono quelle con cui letteralmente spezziamo il pane assieme. Ma i cani hanno un ruolo speciale. Sono personalmente innamorata dei cani, mi hanno insegnato molto e la vita con loro è migliore, si impara a vivere in modo meno violento. È in questo senso che ritengo che scrivere e parlare di cani è un modo per fare teoria femminista, un modo di essere al mondo femminista, per via di una certa forma di prestare attenzione, di prendersi cura, di essere responsabili. Come Vinciane Despret, mi piace lavorare per addizione e non per sottrazione. Quando disegno o dò forma alle cose, preferisco coinvolgere più partecipanti, piuttosto che abbandonare un compagno, trascurare un rapporto di fedeltà, o rinunciare a un modo di pensare.
 
EC: Lei prende chiaramente le distanze da una certa immagine romantica della natura. Il Manifesto Cyborg vietava già in modo provocatorio ogni identificazione stereotipa di donna e natura. Il Manifesto delle Specie Compagne Companion è altrettanto provocatorio nel sottolineare che l’ecologia non è mai l’interesse per luoghi lontani, ‘selvaggi’ e incontaminati, come immaginiamo sia l’Amazzonia: essa si incarna al contrario nell’amore per una natura artificiale, che non è antica perché ha una storia e che non è del tutto non-umana, perché condivide la nostra storia. I cani, appunto.
 
DH: Sappiamo entrambi che la regione che chiamiamo Amazzonia è stata abitata da diversi popoli per un tempo molto lungo. E abbiamo entrambi imparato a riconoscere nell’idea di natura una costruzione filosofica, ideologica e materiale che è servita alla conquista coloniale occidentale, per trasformarla in risorsa. La natura doveva essere una riserva di purezza, di innocenza, diversa per sostanza dall'uomo, che era eccezione assoluta tra i viventi. Si tratta di una costruzione coloniale di risorse, un ‘teatro' dell’innocenza, di ciò di cui ci può appropriare. Disfare questa idea di natura è il compito di ogni persona che voglia assumersi responsabilità del mondo in cui viviamo. Per questo, l'espressione "natura-cultura", nata dall’implosione di due parole in una, è il segnaposto per qualcosa di più. Né la natura né la cultura sono concetti realmente utilizzabili. Entrambi ricostruiscono il mondo in modo binario: la cultura sarebbe la sfera dell'attività umana, del senso, del linguaggio e così via, mentre la natura sarebbe ciò che non ha linguaggio, ciò che si può manipolare e così via. Questa divisione del mondo, come sappiamo entrambi, è incredibilmente distruttiva. E' la base ideologica e filosofica, di gran parte della distruzione dell’Amazzonia e di molti altri genocidi, appropriazioni e narrazioni apocalittiche. Il Manifesto delle Specie Compagne è solo un piccolo libro in cui cerco di scrivere diversamente e, in questo caso, lo faccio con i cani!
 
EC: Non è affatto piccolo: è un grande libro, estremamente importante. In un passaggio del libro, lei dice che i cyborg sono fratelli minori nella famiglia molto più grande e queer delle specie compagne. Penso che questa sia un'idea molto interessante, quindi in un certo senso il Manifesto delle Specie Compagne sta estendendo ciò che lei stava facendo nel primo Manifesto. Del resto come la parola cyborg rende inseparabile il culturale e il naturale, l’organico e l’artificio, così un cane è l’esempio perfetto dell’implosione di natura e cultura perfetta incarnazione di ciò che lei sta dicendo sulla cultura della natura.
 
DH: Il “Manifesto Cyborg” e il “Manifesto delle Specie Compagne” sono davvero la stessa cosa, letteralmente legati insieme, non perché siano identici, ma perché abitano l’uno nell’altro in qualche modo. Ma c’è una differenza tra specie compagne e cyborgs. Gli esseri umani che vivono con altri animali in modo complesso, anche nello spazio domestico, sono molto più antichi della storia dei cyborg. In luoghi molto diversi e distanti del mondo, interi popoli hanno vissuto con altri animali: penso in particolare agli animali da lavoro, agli animali di affezione, a quelli che hanno vissuto con noi nei nostri progetti. I cyborg sono organismi cibernetici che hanno cominciato a esistere su questo pianeta solo intorno alla Seconda Guerra Mondiale, nelle culture della comunicazione digitale: hanno una identità storica molto specifica. Le specie compagne sono più grandi e più antiche. Non sto opponendo il naturale all’artificiale, ma diversi tipi di entità create attraverso la guerra, l'industria, in particolare quella delle comunicazioni, dell'intrattenimento e così via.
 
EC: C'è un bellissimo passaggio in cui scrive che il rapporto tra le specie è qualcosa che può essere avvicinato alla teologia negativa, all’idea cioè che di Dio in quanto essere infinito si può dire solo quello che non si conosce per evitare di catturare l’infinito nel finito e cadere nell’idolatria. Continua dicendo che queste considerazioni teologiche ci aiutano a pensare l’addestramento come una forma di amore.
 
DH: La capacità di non sapere, di conoscere in modo negativo non è una forma di folle stupidità, è quanto dovrebbe informare ogni persona seria. È quel tipo di svuotamento necessario per relazionarsi altrimenti, per lasciare che accada qualcos'altro, per essere sorpresi. Con i cani, ad esempio, in un certo senso ci creiamo a vicenda. E nella storia evolutiva ci siamo letteralmente prodotti l'un l'altro, abbiamo vissuto insieme in modi che hanno cambiato la nostra specie. A differenza dei lupi, cioè i loro parenti più stretti, i cani vivono in una sorta di simbiosi evolutiva obbligatoria con gli esseri umani da un periodo di tempo così lungo che entrambe le specie si sono modificate. A livello più individuale, quando ci si relaziona seriamente con qualcuno, è assolutamente necessario poter esercitare questa capacità di non sapere in anticipo la novità dell’altro, qualcosa che non c'era prima e che può accadere. E ogni volta che si entra in una relazione con l’altro giocare e allenarsi assieme, convivere con l’altro sono un'apertura di qualcosa di nuovo sul pianeta. È una delle cose più importanti per la nostra crisi ecologica: la capacità di non essere accecati dalla sensazione di una catastrofe imminente o di un progresso incalzante, di non essere accecati dalla teleologia, la possibilità di essere aperti a qualcosa che potrebbe ancora accadere. Solo in questo modo potremoessere parte dell'apertura.
 
EC: Ho l’impressione che ogni volta che ci relazioniamo con i cani o con altre specie compagne, in un certo senso, dimentichiamo che appartengono ad un’altra specie, esattamente come loro dimenticano che noi siamo umani. Una volta che il rapporto è cresciuto, ci relazioniamo con loro come se non fossero né canini né esseri umani, ma solo una sorta di intensità di amore e di affetto, proprio come, quando ci relazioniamo con i bambini, dimentichiamo anche un po' la nostra età. Il non sapere di cui parla è questa conoscenza di una vita pura che non appartiene più a nessuna specie?
 
DH: In parte è così. E allo stesso tempo, credo che sia davvero importante non trasformare il cane in un essere umano. È importante sapere qualcosa su ciò di cui i cani hanno bisogno, su come i cani comunicano, su ciò che spaventa i cani. E loro imparano a conoscere noi. Molto spesso gli esseri umani trattano i cani come bambini umani, o proiettano su di loro la fantasia di un 'amore incondizionato: "Oh, il mio cane mi ama incondizionatamente". Beh... è un'assurdità o una colpevole
ignoranza.
 
EC: La prima volta che ho letto il libro, ho pensato alle fiabe del folclore europeo. Anche nella raccolta di fiabe dei Grimm, troviamo matrimoni proibiti tra esseri umani e altre specie. Penso alla favola del principe ranocchio: la principessa dovrebbe sposare un ranocchio, ma scopre poi che il ranocchio è un essere umano trasformato in animale da una strega. In un certo senso, la mitologia popolare europea proibisce qualsiasi forma di relazione d'amore tra le specie: si può amare una rana solo quando si sa che non è una rana, ma un essere umano. Credo che il suo libro sia rivoluzionario perché sembra suggerire che è necessario pensare alle relazioni tra specie diverse per capire cosa sia l’amore anche tra individui della stessa specie. Forse, imparando ad amare un cane, che è un esercizio estremamente difficile, che possiamo capire meglio come amare altri esseri umani.

DH: Mi sembra anche che le favole europee non parlino mai davvero degli altri animali. Anche in questo caso, non si tratta di una rana. Per relazionarsi con le rane bisogna, in un certo senso, svuotarsi dalla propria ‘umanità', imparare a non essere la presenza imponente. In qualche modo, si deve imparare dalla rana come poter essere una rana dal punto di vista della rana. È una forma di disciplina: richiede un lavoro affettivo, intellettuale e pratico per permettere a un altro essere di non essere come te, la tua fantasia, la tua proiezione, il tuo progetto. Farlo con le rane è ancora più difficile, perché non sono specie domestiche e non vivono in un rapporto di simbiosi obbligatoria con gli esseri umani. I nostri obblighi nei loro confronti sono diversi. Alcuni biologi sono bravi in questo. E credo che la filosofa Vinciane Despret abbia scritto pagine decisive su questo tema.
 
EC: Pensare ai cani significa anche pensare agli spazi domestici e, in modo esteso, anche agli spazi urbani. Come pensa che l'architettura e gli studi urbani dovrebbero ripensare le case e le città partendo da queste relazioni?
 
DH: Beh, mi risulta che gli italiani siano piuttosto bravi in questo. I cani nelle città italiane possono entrare nella maggior parte dei luoghi e la gente dà per scontato che ci sono cani dovunque, nei ristoranti, nei caffè... Le città statunitensi sono orribili da questo punto di vista. E i cani negli Stati Uniti, tendono a non essere così diligenti e ad abitare gli spazi urbani come fanno i loro simili in Europa.
 
EC: E perché?
 
DH: Perché negli Stati Uniti non socializziamo i nostri cani in modo altrettanto efficace. Usiamo di più il guinzaglio; i cani non hanno la stessa libertà. E la gente li tratta troppo come dei bambini, prestano loro troppa attenzione in pubblico. In Europa nello spazio pubblico nessuno presta troppa attenzione alla loro presenza e loro sono a abituati ad andare in giro e a comportarsi bene.Sono più liberi. Anche perché la legge negli Stati Uniti è assurda. Da un lato si suppone che ci sia un amore assoluto tra esseri umani e cani, dall'altro i cani non sono ammessi nei parchi, nei centri storici, in ristorante… Non sono ammessi in nessun luogo, non hanno l'esperienza necessaria e tendono quindi ad avere più paura degli altri, a non essere così socievoli come penso sia la norma nella maggior parte delle culture canine europee. Credo che la maggior parte dei cani europei abbia molte più competenze sociali.
 
EC: C’è una differenza culturale nella popolazione canina nel mondo quindi.
 
DH: Sono più socievoli, più esperti, più educati. Naturalmente, questo non è sempre vero e non lo è nemmeno in tutta Europa. È diverso se pensiamo ai cani da lavoro. Ci sono cani da lavoro sia negli Stati Uniti che in Europa, ma i cani hanno perso la maggior parte dei loro lavori. La distruzione della campagna e dell'economia pastorale in Italia, così come altrove, ha distrutto i posti di lavoro dei cani. E le relazioni di un cane da lavoro con gli esseri umani sono diverse da quelle di un cane che è fondamentalmente un compagno d'affetto, un compagno di casa. E nel Manifesto delle Specie Compagne, cerco di scrivere dei cani da lavoro, dei cani da esperimento e dei cani di strada.

 


Per le foto:

New York City, USA. 2000. © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto

USA.  1962.  Long Island, New York © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto

USA. 1973. New York. New York City © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto

Honfleur, Francia. 1968. © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto

New York City, 1977. © Elliott Erwitt / Magnum Photos / Contrasto

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