Conversazioni con Antonio Ottomanelli

Pubblicato il : 30/11/2023 14:30:40

All'edizione 2023 di Paris Photo, uno degli appuntamenti annuali più importanti dedicati alla fotografia, Antonio Ottomanelli ha presentato questa fotografia, che ritrae un membro del Gaza Parkour Team allenarsi nei pressi del campo profughi Khan Younis, nella zona sud della Striscia di Gaza. Lo abbiamo intervistato, chiedendogli di parlarci della storia di quest'immagine e del suo lavoro.




Quest’immagine, presentata a Paris Photo poche settimane fa, nasce da un’urgenza: presentare una differente posizione dello sguardo e del pensiero. Quel che sta accadendo in Palestina, ci dice che i cambiamenti nello stato della realtà del nostro ecosistema non hanno provocato alcuna mutazione nella composizione fondamentale del mondo in termini di possibilità di esistenza, comportamento, azione e immaginazione al suo interno. Il corpo umano, vivo o morto che sia, è lacerato dall’azione dell’autorità, del desiderio, del mercato. Si contraggono i valori dell’ascolto, del rispetto, dell’accoglienza e crescono i conflitti. Distanze, muri, barriere ed eserciti si impongono come un’ipoteca sul presente.
Da qui nasce la mia urgenza di tornare a contemplare il tempo, che è presenza e contemporaneamente sua negazione. Tornare a un’attitudine e un linguaggio fotografico che è esperienza di meditazione sul presente; una fotografia in cui il presente permane non come stabile pienezza ma come traccia di una mancanza e che si mostra come una traccia che permette di pensare insieme, senza contraddizione, ciò che è presente e ciò che è assente senza coincidere con nessuna delle due realtà.
Ho così cominciato ad analizzare i documenti presenti in rete, le fotografie, i video, le foto aeree. Poi, ho cercato nel mio archivio le immagini dei paesaggi urbani della striscia di Gaza e ho potuto individuare e scegliere solo i ritratti, tra quelli da me realizzati, delle aree che non esistono più. Cenere bruciata da questo vecchio e nuovo conflitto.
A Paris Photo ho deciso di mostrare le fotografie tratte da un reportage realizzato durante le ultime due settimane di dicembre 2012, a 21 giorni di distanza dall’accordo di cessate il fuoco, firmato in Egitto, tra Israele e Hamas. Ricordo che da Tel Aviv sono arrivato al valico di Erez - a nord della striscia - da solo, con l’ultimo autobus della giornata. Il resto dei passeggeri è sceso una fermata prima di me, giovani israeliani con divise verdi e fucili d’assalto.
Passare un confine con il proprio corpo, a piedi, è l’unico modo per fare esperienza della sua esistenza. L’altro modo è quando questo confine ti tiene ingabbiato, come a Gaza, e ti impedisce il movimento, ti toglie la libertà.
Penso che il vero grande privilegio che abbiamo in Occidente sia proprio il potere di spostarci (quasi) a nostro piacimento e anche questo diritto, lo abbiamo ottenuto a spese altrui, attraverso colonizzazioni, segregazioni, razzie. Non posso spiegare cos’è il valico e cosa vuol dire passarci in mezzo – magari, per i più fortunati, portandosi addosso ogni volta una casa, tra tornelli, ragnatele in acciaio e gabbie lunghe fino a diventare chilometri. E come ci si può abituare anche a questo, e quante menzogne si raccontano. Il valico è un privilegio difficile che nessuno ti rimprovera.
Al di là del valico, oltre la mediazione estetica a cui siamo abituati, c’erano le immagini mostrare a Paris Photo. Oltre il conflitto, tra la libertà individuale e le strategie di controllo coatte - che riguarda in forme diverse territori considerati molto distanti tra loro, resistevano questi paesaggi. Il racconto di essi. Una collezione di scene urbane, come una serie di schemi e simboli conosciuti.
L’immagine principale presente in mostra ritrae Abdullah Anshasi, membro del Gaza Parkour Team, mentre si allena a Nuseirat, nei pressi del campo profughi Khan Younis, nella zona sud della Striscia di Gaza. Un insediamento abitato fino al 2005 dagli israeliani e oggi abbandonato. Gli abitanti di Gaza non vi possono costruire nulla perché è molto difficile trovare materiali edili. Così i membri del Gaza Parkour Team lo usano come infrastruttura di allenamento. Si allenano anche nel cimitero di Khan Younis tra le rovine delle abitazioni e, a volte, nelle scuole abbandonate dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (unrwa). Ma poiché i luoghi disabitati di Gaza sono usati anche per l’addestramento dalla Resistenza, spesso i militanti di Hamas li fermano, temendo che i droni israeliani li possano registrare, appunto, come membri della Resistenza impiegati in attività di addestramento per azioni di guerriglia.
Gaza è il luogo in cui è nata una nuova dottrina militare/urbanistica, astuta e brutale, in base alla quale il campo di battaglia viene esteso a comprendere gli elementi più ordinari del tessuto urbano: le abitazioni, i negozi e le botteghe in cui si svolge la vita di tutti i giorni. Così come le forze armate israeliane hanno imparato a muoversi direttamente attraverso i muri, aprendosi varchi a suon di esplosivi nel cuore della città, stanza per stanza e edificio per edificio, nel 2005 alcuni giovani residenti nella Striscia hanno avuto una simile rivelazione. Ispirati dalla nascente disciplina del parkour, nata nelle banlieues parigine, hanno iniziato a guardare al tessuto urbano di Gaza come fosse un campo di gioco, attraverso il quale muoversi in modo fluido usando il corpo, invece di armi ed esplosivi, per superare ostacoli e barriere.
Gaza è una prigione in cui la gente deve continuamente immaginare nuove strategie di sopravvivenza. Superare gli ostacoli è uno stile di vita.
L’immagine è stata scelta come copertina del n. 966, maggio 2013, di Domus International. A distanza di dieci anni continua ad essere drammaticamente attuale. Il linguaggio fotografico di quest’opera è distante da ciò cui più mi sento vicino, ma ne riconosco il valore politico e la portata simbolica. Per questo sono molto contento che quest’opera abbia una sua vita al di fuori del mio percorso di ricerca.

Antonio Ottomanelli

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