Conversazioni: Antonio Gnoli intervista Ferdinando Scianna

Pubblicato il : 19/01/2024 15:46:49


Il caso e la fotografia

Dialogo tra Antonio Gnoli e Ferdinando Scianna

 
Durante l'edizione 2023 di Più libri più liberi Ferdinando Scianna ha presentato il suo ultimo libro, Abecedario fotografico, insieme ad Antonio Gnoli, ripercorrendo la propria vita tra ricordi, risate, riflessioni sul futuro, memorabili incontri e casualità. 



Benvenuti a questo incontro con Ferdinando Scianna che, vista la presenza così fitta e numerosa, non credo abbia bisogno di presentazioni.

Oggi siamo qui per parlare della sua ultima creatura, Abecedario fotografico. È un libro curiosissimo, che parla di fotografia senza fotografie, salvo l’immagine di copertina. Sembra quasi una provocazione: un grande fotografo decide di assolvere a una funzione completamente diversa, ma neppure troppo, quella della scrittura. Ultimamente, sono andato a trovare Ferdinando nella sua bellissima casa milanese. Sedeva dietro una scrivania con alle spalle tantissimi libri fotografici con i quali mi ha detto di autorappresentarsi. Allora, mi è venuto in mente di chiedergli quale fosse il rapporto, da fotografo che per sessant’anni si è integralmente dedicato all’immagine, tra fotografia e parola scritta. Sono codici diversi, ma anche la scrittura si serve di immagini: entrambi i linguaggi sono la prova che fuori esiste la realtà, di cui isoliamo un dettaglio, come questa copertina in cui vediamo un muro lacerato, scrostato, che a prima vista sembra quasi un omaggio all’Informale.

Allora, qual è il rapporto tra la parola scritta e la parola dello sguardo, la parola fotografica?

Io penso che qualunque pagina, qualunque immagine, in qualunque relazione noi abbiamo con il mondo contenga un testo che, a sua volta, contiene parole che abbiamo detto, costruito. Qualcuno dice che sono nate prima le immagini della parola. Io penso che non ci sia, e non è neanche concepibile, l’equivalente di un grande scrittore a livello fotografico. Penso che la letteratura, la parola, possa contenere qualunque cosa. Poi io sono fotografo, nel senso che ho fatto il fotografo. In italiano, a differenza del francese o dell’inglese, si dice “fare il fotografo” e a me piace molto questa relazione della lingua con la dimensione artigianale della fotografia: fotografia è una cosa che si fa. Mio nonno faceva il falegname e usava il legno, io faccio il fotografo e ho usato il caso, ma la relazione è imprescindibile. Io sono un fotografo che scrive non sono uno scrittore che fotografa.

 

Quel che dici è interessante anche alla luce del fatto che molte delle persone che hai frequentato – che ti sono state presentate, che ti hanno aiutato o ti sono state di esempio in qualche misura – erano scrittori affermati che avevano un rapporto molto intenso con la realtà. Tra tutti, la figura che forse più di ogni altra ti è stata vicina è quella di Leonardo Sciascia. Il primo libro che hai fatto, nato quasi da un bisogno antropologico di vedere nella tua Sicilia gli aspetti rituali come le chiese, le vecchine, i venditori di ceci, eccetera, si avvalse di un testo importante di Sciascia. Raccontaci un po’ il vostro rapporto.

Per me è molto complicato parlare di Leonardo perché è molto facile; lui è la persona capitale della mia esistenza. Lo incontrai non ancora ventenne, quando lui vide le mie fotografie. Molti hanno creduto che le mie fotografie fossero nate da quell’incontro, invece non è così. Però, in un certo senso, lui mi ha fatto capire quel che io stavo facendo senza averne coscienza. A casa mia i libri non facevano parte dell’arredamento, ce n’erano solo due: una vita di Santa Rita, di cui conosco tutto il miracolo, e una sinossi della Bibbia di cui leggevo solo il Cantico dei cantici quasi fosse un libro pornografico.

Il mio libro sembrava apparentemente banale, innocuo – un libro sulla Sicilia e i suoi riti, ciò che oggi si potrebbe dire convenzionale – ma ha fatto da apripista alla fotografia di feste popolari diventando una specie di luogo comune della fotografia amatoriale. Perché, come mi disse un direttore di agenzia riguardo quel libro quando cercavo lavoro, “i terroni sono fotogenici, specialmente se pregano, e tu hai fotografato dei terroni che pregano, quindi sono per forza delle buone foto”. E anche, “vorrei vedere cosa sei capace di fare per esempio a Milano in via Montenapoleone”. Lo feci e pare che me la sia cavata anche in quel caso.

La scrittura è arrivata dopo, nata da un fortissimo sentimento di inadeguatezza, di ignoranza. Guardando quel libro e quelle fotografie mi domando “ma chi le ha fatte?”. Quando ho iniziato ero troppo ignorante – ignorante in maniera enciclopedica – ma ancora oggi, a distanza di sessant’anni, quelle foto restano in piedi, forse per la fame di vita. E ho cercato l’amicizia negli scrittori anche perché mi sembrava avessero delle cose da dire.

 

Mi incuriosisce l’idea di spaesamento che ti dà il tuo lavoro. Lo hai raccontato varie volte: fare fotografia era considerato quasi abietto e nella tua famiglia lo reputavano un mestiere di terz’ordine.

Mio padre ne è stato amareggiato, gli ho rovinato gli ultimi anni di vita, visto che è morto piuttosto giovane. Lui contava su di me per un riscatto della famiglia attraverso la scuola e avrebbe voluto diventassi ingegnere o avvocato. Un giorno trovai una storia disegnata in una rivista anarchica dell’inizio del Novecento a Parigi che diceva: “il signore ha una bella famiglia, ha una bellissima casa e una bellissima figlia. La figlia è una bellissima ragazza che ha sposato il figlio di una bellissima famiglia di professionisti che si sono comprati una bella casa…”. Ecco, non è che fosse una prospettiva così brutta! Mio padre voleva un progetto simile per me. Quando sono andato via per fare il fotografo, nel paese non lo diceva, era una vergogna.

 

Prima hai detto una cosa che mi ha colpito, ovvero che la fotografia per te è il caso, cioè si lega alla casualità. E così anche nella vita?

Caso e fotografia sono quasi sinonimi. Anche nella vita, poi, non è che sia una faccenda insolita. Il caso ha voluto che facessi fotografia di moda perché Dolce e Gabbana, che avevano appena cominciato la loro carriera da stilisti, sono venuti a cercarmi, volevano realizzare un catalogo con un fotografo che non fosse fotografo di moda. Ero stato indicato da una cliente, la signora Torregrossa, che aveva un negozio a Palermo. Le foto che feci per quel catalogo con quella fotomodella ebbero un enorme successo che mi ha cambiato la vita, ma che non era nei miei piani. Poi, negli anni successivi, abbiamo scoperto che le fotografie per cui mi avevano cercato non erano mie. Se non è casuale questo! Ricordo una domanda che fecero al grande fotografo Robert Frank, che smise di fotografare abbastanza presto: “Ma perché hai smesso?”. E lui: “Perché non ne potevo più di passare la vita ad aspettare che Dio facesse capolino da dietro l’angolo”. È una maniera più bella di dirlo, ma sta parlando del caso.

 

Parla del caso ma anche dell’istante. Una delle tue frequentazioni parigine è stata Cartier-Bresson. Lui ha teorizzato la foto come quel preciso momento in cui accade qualcosa, quasi un gesto messianico in cui si attende che Dio faccia capolino, e poi improvvisamente si può scattare, anche se non sempre sai perché scatti. Quindi nella fotografia c’è tutto, misticismo, casualità, ma anche una forma di intenzionalità. Raccontaci il tuo rapporto con Cartier-Bresson.

Ho avuto il privilegio di conoscere e diventare amico di Lamberto Vitali, grandissimo personaggio della cultura milanese, uno dei pochi grandi critici d’arte che si occupava anche di fotografia. Vitali era amico di Cartier-Bresson e ha portato la sua prima mostra in Italia. Quando Tommaso Giglio mi mandò a Parigi come corrispondente dell’Europeo, arrivai con una lettera di presentazione di Vitali per Cartier-Bresson. Una lettera che non ho mai usato perché mi vergognavo. Però a Parigi pubblicai il mio libro sui siciliani (Les Siciliens) e glielo mandai con una dedica, un biglietto gentile. Dopo poco tempo, Romeo Martinez, formidabile personaggio e storico della fotografia, mi telefonò dicendo: “È venuto Henri a casa mia, e abbiamo parlato di te. Gi piacerebbe conoscerti”. E così è andata. Io credevo che lui fosse un monumento al Jardin du Luxembourg, non una persona vera. Invece poi siamo diventati molto amici e parlavamo quasi di tutto, più che di fotografia. Poi lui mi ha fatto entrare a Magnum ed è stata un’esperienza fondamentale.

L’“istante” decisivo di Cartier-Bresson è diventato quasi una formula mistica. Il suo libro più importante è Images à la sauvette – come dire “istantanee fatte così, al volo” – e aveva come esergo una frase del cardinale Retz: “Non c’è nulla al mondo che non abbia il suo momento decisivo”. Questa frase piacque così tanto all’editore americano del libro, che intitolò l’edizione inglese del volume The Decisive Moment. Da allora, Cartier-Bresson divenne il fotografo del momento decisivo.

Per lui, però, quell’attimo non è proprio delle cose, ma è quello in cui il fotografo decide di schiacciare il bottone perché pensa che ci sia un istante unico da riprendere. È questa scelta che rende decisivo il momento dello scatto. Non implica che ci debba per forza essere un’azione da afferrare in fotografia, e anche se sei davanti a un paesaggio, o a una mela su un tavolo, puoi decidere di fotografare quell’istante. Quello sarà il momento decisivo in cui quella cosa diventa fotografia e diventa immagine. Quindi, tutto nasce dal caso. Però, naturalmente, è anche il frutto della tua storia, della tua cultura, di quello che hai o non hai mangiato da bambino...

 

Può essere decisivo, ma irrilevante.

Può essere decisivo ed è quasi sempre irrilevante. C’è una differenza fondamentale tra il disegno e la fotografia. Quando disegni, se qualcosa non viene bene puoi cancellarla, ma una fotografia che non funziona non si può aggiustare, ne puoi fare un’altra ma nel frattempo il momento decisivo è passato. La maggior parte delle fotografie che obbediscono a questa filosofia, o a questa ideologia estetica, non sono buone. Cartier-Bresson diceva “non esistono le foto quasi buone; se sono quasi buone, vuol dire che non sono buone”. La fotografia è un gioco spazio-temporale e anche una mela su un tavolo in due minuti cambia al cambiare della luce. Se consegni dieci macchine fotografiche a dieci persone che si trovano davanti allo stesso paesaggio, otterrai dieci foto diverse.

 

Forse, più che decisiva, sarebbe meglio dire se una foto è possibile o impossibile.

Prima citavi Martinez, che è stato anche il direttore della rivista in cui uscì la famosa foto del miliziano morente di Capa. Si è molto parlato di questa immagine, se sia un falso o un’immagine ricostruita, quindi senza la tempestività dell’istante decisivo.

Ho scritto undici articoli su quella fotografia. Io sono convinto che non ci sia stata alcuna messinscena e che l’immagine non sia necessariamente un imbroglio, anzi! Un fotografo che tutti noi abbiamo venerato religiosamente, W. Eugene Smith, diceva sempre “lasciate che la verità sia l’unico vostro pregiudizio”. Smith voleva talmente tanto questa libertà che una delle sue foto più famose, in cui si vede un soldato che scappa da un’esplosione, è stata fatta con l’autoscatto, con la macchina messa lì da lui, convinto che se la causa è buona, allora anche la foto lo sarà.

Io non la penso così. Una fotografia è buona per tante ragioni. Nel nostro caso, prima di tutto il giornalista inglese che ha messo in giro questa storia ha detto: “Io ho visto il provino a contatto di quel rullino. Dal rullino si scelgono le foto da stampare e magari nel rullino di Capa, su 36 foto, alla 7 c’era il miliziano che cadeva e alla 25 il miliziano che camminava”. Ma Romeo Martinez disse che il contatto di quel rullino non c’era perché i negativi arrivarono a Parigi in un sacchetto senza aver prima stampato i contatti. Quindi la foto è stata scelta sul negativo e Capa, che aveva mandato tante fotografie fatte in diversi momenti, disse che al ritorno dal fronte in Spagna, si ritrovò incoronato come il più famoso fotografo di guerra. È stata poi ritrovata un’intervista radiofonica fatta da lui poco tempo prima di morire, in cui raccontava come fosse andata: Capa era in trincea insieme a una banda di cinque o sei anarchici e c’era un nido di mitragliatrici franchiste che sparavano. Loro erano bloccati in trincea senza poter uscire, ti avrebbero sparato anche se eri un fotografo.

Quando il miliziano aveva deciso di uscire dalla trincea, Capa aveva alzato la macchina fotografica sulla testa e scattato la foto. Pura casualità, una foto tutt’altro che eroica.

La vicenda poi è diventata anche mediatica: c’è stato uno storico spagnolo della Guerra Civile che è andato a cercare negli archivi del Ministero della Guerra se in quel giorno a Belchite c’è stato effettivamente uno scontro e con quanti morti. Nelle sue ricerche ha trovato un documento in cui compariva il nome del miliziano Federico Borrell García e ha individuato la sua famiglia fino a rintracciare una sua cugina. La signora ha riportato il racconto di sua zia, secondo cui qualche tempo dopo la fine della carneficina della guerra era arrivato a casa loro un commilitone di Federico per dirle che era morto allargando le braccia e cadendo indietro. Questo racconto, così simile anche al famoso quadro di Goya, ha fatto diventare iconica la foto. Solitamente, le immagini mitiche non sono univoche e rievocano altre che si sono depositate nella coscienza mitica delle persone.

Sono contento della piega che sta prendendo questa conversazione perché il libro Abecedario fotografico è proprio questo: sono le chiacchiere da vecchietto di uno che le scrive per cercare di non dimenticarle; ricordi che nascono da conversazioni. Poi alla fine, io dico quasi sempre le stesse cose e forse questo libro risulterà vagamente familiare.

 

Sei affabulatorio, ti definisci chiacchierone.

Chiacchieronissimo. Esistono due tipi di siciliani: quelli come Sciascia – che parlava pochissimo, salvo che con me e con gli amici più stretti – e quelli che invece non si fermano mai.

 

Ci racconti l’aneddoto di te e Sciascia a Parigi che andate in un cinema a luci rosse?

Sciascia veniva spesso a Parigi quando ero corrispondente lì e una volta, in una delle nostre deambulazioni per la città, mi disse “Ma tu hai mai visto quei film pornografici di cui ci sono i manifesti qui a Parigi? Ci sono un sacco di cinemini specializzatissimi, ci vogliamo andare?”. Così entrammo in un cinema a luci rosse. Dopo un quarto d’ora, Sciascia mi disse “andiamocene” e uscendo esplose in uno dei suoi metafisici “Bah!”, aggiungendo poi: “Sembrava di essere a una specie di esposizione da macellaio, con pezzi di carne e basta. L’unica cosa veramente pornografica, là dentro, eravamo noi due”.

 

Durante il tuo periodo parigino, quando lavoravi all’Europeo, sei entrato in contatto con Milan Kundera. Prima professionalmente, per così dire, e poi diventandone amico.

Sì, con Milan siamo diventati molto amici.

Ero corrispondente da poco tempo. Me lo ha presentò nel 1977 Dominique Fernandez, scrittore francese che si occupa di cultura italiana; aveva una casa editrice e che scrisse anche uno dei testi del mio libro sui siciliani. Io ero con Sciascia a Parigi e Dominique volle farci conoscere “un personaggio straordinario”. Ci invitò a colazione con Kundera e sua moglie. Lui aveva lasciato la Cecoslovacchia dopo l’invasione russa, andando a Parigi per ritirare un premio e rimanendovi. Io rimasi molto colpito da lui. All’epoca, due dei suoi libri più importanti erano già stati tradotti in italiano, Lo scherzo e Gli amori ridicoli, ma praticamente senza alcuna eco. Kundera mi sembrò un tipo molto speciale e gli proposi di fargli un’intervista che rimase poi impubblicata per mesi, del resto lui non era conosciuto. Gli raccontai che ero andato in Cecoslovacchia al momento dell’invasione russa e questo fece scattare in lui una simpatia nei miei confronti. Eravamo molto legati e mi ha insegnato moltissimo.

Prima ancora di conoscere Sciascia, le mie passeggiate a Bagheria erano con Ignazio Buttitta, probabilmente il più grande poeta di lingua siciliana della storia. E poi Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Vásquez Montalbán e altri. Ho rotto le scatole a tutti.

 

Che cosa invidi agli scrittori?

Tutto! Invidio che non hanno avuto la disgrazia di fare le foto.

Ho fatto una cosa grottescamente infantile, proprio nel periodo in cui ero a Parigi, forse uno dei miei periodi più frustrati. Mio padre non diceva in giro che ero fotografo, e probabilmente me ne vergognavo anch’io a forza del suo disprezzo. Allora avevo degli innamoramenti per la scrittura che mi venivano quasi tutti da Sciascia. Ma innamoramenti proprio furibondi. Credo di aver letto tutto Borges, comprese le interviste, ancor prima di aver avuto il privilegio di incontrarlo.

E ho fatto lo stesso con Alberto Savinio, che trovo abbia la prosa italiana più incredibile che ci sia. Così, a un certo punto mi sono chiesto se non fosse una questione di allenamento e ho deciso di imparare una ventina di pagine a memoria di Finzioni di Borges e quasi altrettante di Savinio. La mattina studiavo per impararle a memoria, con l’idea di arrivare a quel punto in cui non sarei più riuscito a distinguere se le avessi lette o le avessi scritte io. Pensa a che livello era la mia nevrosi per la scrittura.

 

Ti sei scelto due irregolari che sono diventati dei classici. Ti senti un po’ classico oppure non ti interessa?

No, io mi sento classico nel senso che mi considero l’epigono di una tradizione classica della fotografia. Ho sempre voluto fare un tipo di fotografia che somigliasse a quella che consideravo, e oggi viene considerata, classica. Una volta chiesi a Berengo Gardin, che è una specie di fratello per me, “ma tu quando hai cominciato a fare fotografie volevi essere originale, speciale?”. E lui: “No, io volevo essere bravo come Cartier-Bresson, non volevo essere diverso”. Certo, l’originalità è la molla dell’artista, ma l’artigiano deve anche saper fare bene il tavolo, se è falegname.

 

Infatti tu dici sempre che sei molto influenzabile.

Io sono il più influenzato dei fotografi che conosca. E me ne vanto. Così, per nobilitarmi, voglio citare Borges, quando diceva che lui era molto più orgoglioso dei libri che aveva letto rispetto a quelli che aveva scritto. E a mia volta, io sono molto più orgoglioso delle foto che ho amato di quelle che ho fatto io.

 

La modestia ti fa…

No, non sono modesto, sono umile.

 

Be’ sei ironico! Umile non sei [ride]. Una volta mi dicesti che credi di aver fatto più di un milione di foto. E io ti chiesi quante ne avresti salvate, di queste fotografie.

Ne salverei tra le trenta e le cinquanta. E perché sono vanitoso e mi voglio bene: non credo infatti che ce ne siano davvero trenta buone. Io ho avuto molta fortuna e molta passione nel realizzare libri, e in quei libri ci sono alcune centinaia di fotografie, che sono tante. E di quelle fotografie potrei dirvi il padre, la madre, il cugino, lo zio, il parente lontano… Cioè sono tutte figlie delle cose che ho guardato e delle influenze che ho avuto. Quando parlo di una fotografia, parlo della sua piccola musica. Purtroppo, di recente è morto Elliott Erwitt. Aveva 95 anni, ma certe persone non dovrebbero morire mai. Oltre a essere un amico, era un fotografo immenso, classico, e ogni sua foto aveva la sua musica. Alcuni hanno una piccola musica, altri hanno una grande musica. Ad esempio, Cartier-Bresson suona l’organo.

 

Hai citato un paio di fotografi italiani, tra cui Berengo. Esiste una tradizione fotografica italiana molto importante di cui però non si prende mai in considerazione la rete generale, ma si guardano sempre le grandi individualità come Letizia Battaglia, Lisetta Carmi…

La rete invece c’è, o almeno c’era. Nei fotografi della mia generazione si poteva rintracciare un filo di italianità. Oggi non è più così e soltanto i sovranisti pensano che ci sia una peculiarità, ma non c’è più il fotografo italiano. Anche se c’è qui, accanto a me, vedo Antonio Biasiucci, che è un grandissimo fotografo, oltre che un caro amico. Ad esempio, lui che cos’è? Un fotografo italiano o uno straordinario visionario internazionale? O entrambe le cose? È un fotografo che può essere amato in Lapponia o in Sudfrica, ma tutto ciò che infiamma la sua fantasia è talmente napoletano! In maniera molto diversa e discontinua, c’è stata una cultura fotografica italiana che ha disegnato un panorama interessante.

 

Questo eccesso di democratizzazione della fotografia sta distruggendo l’immagine o la sta estendendo a confini impensabili fino a vent’anni fa?

Dipende. Democrazia è sempre una parola migliore di autoritarismo, però non è un sinonimo di consumismo di massa o di mancanza di ragioni culturali e storiche che giustificano quello che si fa. Come si fa ad analizzare scientificamente una goccia d’acqua nel bel mezzo di uno tsunami? L’unica cosa che si può dire è che c’è casino. Oggi ci sono 10.000 o 100.000 fotografie di tramonti che tutti i giorni la gente mette in giro perché tutti hanno il telefonino. Ci può essere persino una buona foto del tramonto, per quanto difficile sia, ma non è democratica.

 

Dal caso al casino il passo è breve. Grazie a tutti.


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