L’Italia di Gianni Berengo Gardin di Alessandra Mauro

Pubblicato il : 01/10/2025 12:49:50

Berengo Gardin, forse il più rappresentativo e celebre fotografo italiano, se ne è andato il 6 agosto 2025, lasciando tutti attoniti per una morte certo prevista, per chi come lui non era più un ragazzo, ma giunta di colpo, senza preavviso. Sembra quasi che la proverbiale timidezza di Gianni abbia avuto il sopravvento anche in questo caso, preferendo andarsene senza troppi clamori, come chi si accomiata in punta di piedi, chiudendo delicatamente la porta con un sorriso. Un suo amico intellettuale Goffredo Fofi, qualche anno fa ricordava come Berengo fosse riuscito nel tempo, in tutti i reportage fatti nel nostro paese, a realizzare un’immagine dell’Italia di cui dobbiamo essergli grati: «Io penso davvero a Berengo Gardin e a qualche altro come lui, oggi, come all’“italiano buono”, al giusto, al diverso, a colui che vivendo e raccontando l’Italia è riuscito a salvaguardarne un’immagine di cui non vergognarsi. […] Berengo Gardin ha cercato l’italiano buono perché era lui a essere tale e lo è ancora, e continua infatti a cercare negli altri una conferma della sua visione, la proiezione della sua speranza. Questo è in definitiva il mio personale motivo di gratitudine verso Gianni Berengo Gardin e il suo lavoro, una gratitudine che credo simile a quella di tanti».
 
Chi era, allora, questo italiano buono, in grado fino alla fine dei suoi giorni di raccontare l’immagine di un paese di cui andare fieri?
Gianni Berengo Gardin, per tutti «Berengo», nasce il 10 ottobre 1930 a Santa Margherita Ligure. La mamma dirige un grande albergo in riviera e il padre è un veneziano doc, canottiere della storica società Bucintoro, in trasferta sulla costa ligure per una gara. I due si incontrano, scocca l’amore, si sposano e nasce Gianni.
Presto la famiglia si trasferisce a Roma, dove il ragazzo trascorre infanzia e adolescenza negli anni tetri della guerra e dell’occupazione. Qui la fotografia fa una prima comparsa e diventa il pretesto per una bravata infantile, una presa di posizione da adolescente ribelle. Durante l’occupazione nazista è proibito fotografare e, per protesta contro un divieto tanto assurdo, il piccolo Berengo prende la macchina fotografica della mamma, due rullini, e comincia a girovagare per le vie della città fotografando più per sfregio che per consapevolezza. L’apparecchio viene sequestrato, ma l’episodio la dice lunga su quale sarà il rapporto tra Berengo e la fotografia.
Dopo la guerra, un altro trasferimento: ora a Venezia, dove la famiglia gestisce un negozio di vetri vicino a piazza San Marco. Le cose non vanno male e questo potrebbe essere il destino lavorativo di Berengo. Ma la fotografia, questa volta con prepotenza, spariglia le carte e cambia i piani familiari. All’inizio è un passatempo che il ragazzo coltiva per accompagnare un’altra passione, quella per l’aviazione: le fotografie che realizza servono a documentare i velivoli che studia e su cui scrive. Ma poi, proprio il linguaggio semplice e schietto della fotografia, con quel bianco e nero essenziale e incisivo che registra la realtà e rendendo memorabili i gesti quotidiani, lo conquista.
Uno zio in America conosce a New York Cornell Capa, fratello del grande Robert e a sua volta direttore dell’International Center of Photography. Cornell consiglia all’amico di inviare al nipote lontano e appassionato fotografo alcuni libri fondamentali, riferimenti visivi irrinunciabili. Così, i classici di Life, i maestri della grande documentazione americana, gli autori della Farm Security Administration che hanno raccontato la vita di una nazione, i suoi drammi e i suoi problemi, approdano così nella stanza veneziana del ragazzo. Ricorda Berengo: «Vedendo quelle immagini, ho capito che esisteva un altro modo di fare foto. A me, in fondo, non interessava diventare artista ma piuttosto giornalista. Uno che racconta».
Frequenta allora il circolo fotografico La Gondola e Venezia diventa una palestra dove confrontarsi con i giovani colleghi. L’incontro con loro e con Paolo Monti, il decano del gruppo, è fondamentale per raggiungere un’autonomia di visione.
Certo, gli Stati Uniti della FSA e di Life sono lontani ma la Francia e Parigi, è senz’altro più a portata di mano. Un lavoro come portiere di notte in un albergo gli permette di completare la sua formazione. Lavorando di notte può trascorrere le giornate in giro per la città e frequentare i circoli degli autori di cui ha tanto sentito parlare, Boubat, Masclet, Doisneau, e soprattutto Willy Ronis, che più di altri diventa per lui un mentore e un esempio.
Dopo il periodo parigino, Berengo torna a casa. Le foto di Venezia che realizza, diverse dall’oleografia abituale fatta di macchie colorate sulla laguna, di maschere in piazza per il carnevale, cominciano a circolare nei concorsi e nelle mostre. Offrono l’immagine di una città più intima, dove il racconto si stempera in tanti possibili frammenti abituali e poetici. Il vaporetto come mezzo di trasporto, la domenica delle cerimonie religiose, la prima neve in piazza San Marco, l’acqua alta, un bacio sotto i portici. Una quotidianità che se conserva i ritmi dilatati della laguna veneta, fuori da ogni clamore, è comunque vera, genuina. Nasce così il libro che gli darà subito la fama, Venise des saisons, uscito nel 1965 per le edizioni La Guilde du livre di Losanna. Il bianco e nero è un segno distintivo, una scelta che Berengo non abbandonerà mai.
A Venezia Berengo conosce Romeo Martinez, il direttore di Camera, e a lui chiede conferma: sarà in grado di diventare, da bravo e onesto fotoamatore, fotografo professionista? Berengo a Venezia ha già una famiglia, un lavoro avviato… Per diventare professionista dovrebbe lasciare tutto e andare a Milano, dove ci sono le case editrici, dove si stampano i giornali e dove le opportunità di lavoro non mancherebbero. Alla fine, spronato da Martinez, Berengo decide di compiere questo passo e trasferirsi a Milano, dove finalmente, la passione per la fotografia diventa lavoro, pratica professionale, crescita umana e formazione politica. «A Milano fotografando in fabbrica ho scoperto gli operai ed è cominciata la mia formazione politica. Da ragazzo a Venezia, amavo molto gli scrittori americani: Steinbeck, Hemingway e soprattutto Dos Passos, che era sì un romanziere, ma anche un anticapitalista, un radical. Venendo a Milano e lavorando in fabbrica, ho capito il resto.»
Berengo capisce cosa voglia dire essere un fotografo di documentazione e ritaglia per sé il ruolo di osservatore attento, a volte critico. Proprio come, prima di lui, ha insegnato la tradizione del fotogiornalismo del Novecento, quella che, ragazzo, guardava affascinato sulle riviste e nei libri spediti dallo zio d’America. Nascono così i reportage sul sessantotto, la protesta alla Biennale di Venezia e il grande progetto, a quattro mani con Carla Cerati, sui manicomi in Italia che diventerà un libro, Morire di classe, uscito nel 1969: uno degli esperimenti fotografici ed editoriali più interessanti del nostro paese.
Tanti sono i lavori realizzati da Gianni Berengo Gardin nel corso degli anni. Si è interessato alla crescita del nostro paese e ai suoi cambiamenti, al diverso ruolo reclamato dalle donne, al lavoro, ai consumi che cambiano, alla città che avanza e inghiotte la campagna. Ogni visione è estemporanea e folgorante, come un lampo che coglie l’obiettivo e l’occhio del fotografo. Eppure, ogni visione è anche il frutto di studio e di ricerca, di sensibilità sincera e sintonia profonda tentando di cogliere quel legame unico che salda le persone all’ambiente in cui vivono e permette loro di riempire di gesti e movimenti, insieme naturali e precisi, esatti e unici, l’atmosfera che li circonda.  Lavoro dopo lavoro, visione dopo visione, nel tempo è andato a costruire una narrazione visiva in cui tutti riusciamo a riconoscerci.
 
Così, il filo del racconto visivo di Berengo Gardin, quell’immagine dell’Italia da cui siamo partiti, riesce a far conoscere un piccolo villaggio, a testimoniare una città, a documentare una nazione. Tenere saldo questo filo gli ha permesso di seguire storie e vicende tra le più complesse del reportage sociale, come entrare nei manicomi prima della riforma Basaglia e creare immagini di denuncia e rispetto. O vivere con gli zingari e riprendere, con fiducia e curiosità, i momenti corali della loro vita, come le feste e le cerimonie. Ma gli ha anche permesso di muoversi rapido in un piccolo paese, all’interno di una comunità religiosa, in una fabbrica come nelle risaie del vercellese o sulle montagne dell’Alto Adige; di procedere in una processione nel sud Italia, a Taranto o a Bari, o lungo i canali della sua Venezia, vero luogo del destino, dove Berengo torna e ritorna più volte per esplorare i cambiamenti e le ricorrenze dello sguardo o, ancor più recentemente, per denunciare lo scempio del passaggio con le grandi navi in immagini classiche eppure incredibilmente contemporanee.
Non molto tempo fa tempo fa, ha dichiarato: «Quando mi domandano se ci siano ancora delle cose importanti che vorrei fotografare, generalmente rispondo che sono soddisfatto delle immagini e dei reportage realizzati negli anni. Ogni giorno però, se esco di casa, sento il bisogno di portare con me la mia macchina fotografica. Non potrei stare senza: il mondo è pieno di fotografie che aspettano di essere realizzate, di momenti da cogliere che si manifestano all’improvviso davanti ai nostri occhi».
Ecco la forza di Gianni Berengo Gardin del suo intenso, vibrante, coinvolgente “romanzo visivo”: in cinquant’anni di osservazione, le sue immagini hanno raccontato, e ancora raccontano, l’uomo immerso in un’Italia di cui Berengo sembra comprendere tutto, desideri e aspirazioni, aberrazioni, contrasti e sogni. Le sue fotografie ricostruiscono un’epoca, la nostra, accompagnando lo sguardo e costruendo una visione, quella del nostro presente e del nostro territorio. E di questo, senza dubbio, gli siamo e gli saremo sempre grati.

 

 

 

 

 

 

 

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